“Casalesi non è il nome di un clan, ma il nome di un popolo”. Lo diceva spesso don Giuseppe Diana, il sacerdote ucciso il 19 marzo di 15 anni fa, nel giorno del suo onomastico. Quindici anni dopo casalesi per la maggior parte degli italiani e dei campani è ancora sinonimo di una delle più potenti e feroci organizzazioni malavitose, assurte all’onore della cronaca mondiale per via del best seller internazionale “Gomorra”. Forse non tutti sanno che l’autore, il giovane Roberto Saviano, che in questi luoghi è cresciuto, scrisse quel romanzo-inchiesta proprio in onore del sacerdote ucciso a 36 anni per il suo impegno contro i clan che infestano questa terra bella e devastata.
Certo molto è cambiato da allora. La gente onesta ha cominciato a rialzare la testa, i clan sono nel mirino delle forze dell’ordine e degli investigatori, molti boss sono morti o sono finiti dietro le sbarre in regime 41 bis. Il bagno di folla di ieri, con migliaia di giovani che hanno sfilato per le strade del paese, testimonia che l’impegno civile non è certo finito e si rafforza. Anche il centro di volontariato di Casal Di Principe dedicato a don Diana è il simbolo di un riscatto. “Lei non immagina nemmeno cos’era questo paese fino a dieci anni fa”, ci ha detto il successore di don Diana, che a soli 28 anni aveva preso il suo posto nella chiesa di San Nicola. La sua prima messa, in mezzo a una folla di fedeli ammutoliti, di curiosi e di uomini della zona grigia contigua alla camorra mescolati nella folla, don Franco la fece tra due ali di angeli custodi: gli agenti della scorta.
Casal di Principe, comune di 20mila anime in provincia di Caserta, nell’agro aversano, era la roccaforte inviolabile dei clan, che avevano traffici di droga, di armi di imprese e commerci di ogni tipo degni di una multinazionale, con addentellati in Spagna e persino in Cina. Una potenza industriale e militare che metteva paura.
Contro questo impero don Diana aveva osato contrapporsi. Era estroverso don Diana: aveva un carattere allegro, diretto, insaporito da battute in dialetto. Ma era motlo determinato. Fu uno dei primi sacerdoti a intuire i cambiamenti della globalizzazione: allestì un centro di accoglienza per immigrati e per le ragazze dell’Est approdate in Italia in cerca di un lavoro, quando spesso venivano trascinate sulla strada della prostituzione.
Era una forza della natura don Diana. “Un vero e proprio ciclone”, ripete don Picone. La sua missione pastorale comprendeva il ripristino della legalità, in un paese che negli anni ’90 era fuori dai riflettori ed era nelle mani dei clan che si combattevano in una sanguinosa faida scoppiata all’indomani della morte del boss Antonio Bardellino, sparito nel nulla in Sudamerica. Ci si ammazza per strada a Casale a quei tempi, a volte basta poco, magari il semplice riconoscimento di un affiliato del clan avverso. Chi si trova nel posto sbagliato all’ora sbagliata, ci rimette la pelle anche se non c’entra nulla, come capitò al giovane muratore Angelo Riccardo, il 21 luglio 1991. Ci fu anche un corteo di auto organizzato da uno dei clan, finito a sfilare sotto le case dei rivali, nel silenzio irreale dei cittadini di Casale, chiusi in casa, le serrande abbassate, come in un film di Sergio Leone. La gente onesta non ne poteva più e don Diana, insieme ad altri sacerdoti, cominciano a denunciare apertamente le connivenze tra camorra e potere. “Se la camorra ha assassinato il nostro paese”, scriveva don Diana su un giornale locale, “noi dobbiamo farlo risorgere, bisogna salire sui tetti e riannunciare la parola di vita”.
A Natale del 1991 i parroci della zona pastorale di Casal di Principe diffondono un documento dirompente. Si intitola Per amore del mio popolo non tacerò. La stessa frase che ieri, al corteo per la legalità, molti giovani di Libera, l’associazione antimafia di don Ciotti, avevano stampata sulla loro maglietta. Un documento dirompente, che scuote le coscienze. Si scagliava contro la camorra, “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Le parrocchie diventano il punto di riferimento della ribellione contro la camorra. La camorra decide di farla pagare a uno dei suoi simboli. E come simbolo vioene scelto proprio don Diana, uno di quelli che sta in prima linea e che non si nasconde, anche se è un povero prete indifeso.
Il 19 marzo 1994 era una mattino di primavera incombente. Il killer si presentò nel corridoio degli uffici parrocchiali alle 7.20 del mattino. “Chi è don Peppe?”. Rispose: “Sono io”. Quattro colpi a bruciapelo. Don Diana non morì una sola volta, ma una seconda e una terza, perché dal giorno dopo cominciarono a infittirsi notizie volutamente ambigue sul suo omicidio: don Diana aveva un’amante e un marito gliela aveva fatta pagare, don Diana era legato alla camorra, don Diana nascondeva armi in sacrestia per conto di uno dei clan. Ci sono voluti anni e numerosi processi per ristabilire la verità di quel martiirio. Anni attraversati da una feroce mattanza per la guerra di potere tra i clan Schiavone e Bidognetti. Il tempo è stato galantuomo e le calunnie sono state spazzate via. Don Diana è stato ucciso, sintetizza don Franco, perché era un personaggio scomodo, utilizzato nella lotta dei clan di Casal di Principe, e perché bisognava fermare l’azione antimafia della Chiesa locale. Oggi è il simbolo della lotta contro i clan, come hanno testimoniato migliaia di cittadini onesti venuti a sfilare per le strade di questo paese. Perchè un giorno si dica che casalesi è il nome di un popolo e non di un clan.