lunedì 30 marzo 2009

LA RIVOLUZIONE LIBERALE DI BERLUSCONI


E adesso? Dobbiamo aspettarci dal neonato Pdl “una rivoluzione
liberale, borghese e popolare, moderata e interclassista che colma un
vuoto nella storia italiana” come ha detto Silvio Berlusconi aprendo
il congresso? E' questa la sfida del Centrodestra? E soprattutto,
siamo sicuri che l'Italia sia pronta per questa “rivoluzione”? Il tema
è piuttosto controverso nelle sue premesse e nei suoi intenti. A ben
guardare, nella storia del nostro Paese una rivoluzione liberale c'è
già stata ed è quel Risorgimento che l'Italia si appresta a celebrare
nel 2011, in occasione dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia. Una
rivoluzione certo non popolare e interclassista, come forse avrebbe
voluto Garibaldi (o come dichiarava di volere), ma certo liberale e
borghese come lo erano i nostri primi padri della patria, le cui
statue e le cui targhe riempiono le nostre piazze e le nostre vie, da
Cavour a Crispi a Giolitti. Ma il punto è che il mondo attuale,
compreso il nostro Paese, ha già emesso il suo verdetto di
colpevolezza sul liberalismo e sulla sua declinazione economica, che è
il liberismo. Una formula politica, quella del “laissez faire”, che
aveva una sua ragion d'essere ed era in auge all'inizio dell'avventura
berlusconiana, a cinque anni dalla caduta del muro e del comunismo,
nel generale discredito, quando Fukuyama proclamò “la fine della
storia”, ma che oggi, con la caduta del secondo muro, quello di Wall
Street, è stata disconosciuta, a cominciare dal ministro dell'Economia
Tremonti. Già nel suo fortunatissimo pamphlet “la paura e la
speranza”, scritto quando la crisi economica mondiale non era ancora
conclamata, Tremonti aveva archiviato anche il liberismo, “il mito
dell'economia assoluta dominatrice della nostra esistenza, matrice
esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori”. Poiché “il mito a
cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi
anni, ci ha in realtà rubato un pezzo di vita e di storia”. La grande
depressione statunitense, l'inflazione delle materie prime, la crisi
finanziaria, le forti ondate migratorie, i milioni di disoccupati, la
caccia alle streghe che si sta facendo contro i manager e i banchieri
che hanno liquidato a suon di benefits e stock options, ci dicono che
il liberismo non è la risposta, anzi è stata la causa di quello che
sta avvenendo sui mercati e nelle fabbriche. Anche in casa nostra. Se
nella regione sarda del Sulcis decine di migliaia di lavoratori hanno
perso il posto e altre decine di migliaia rischiano di perderlo da qui
a poche settimane è perché la privatizzazione degli impianti di
estrazione e di produzione dell'alluminio degli anni 'Novanta li ha
consegnati a multinazionali il cui quartier generale è a Mosca, a New
York, Zurigo, lontano anni luce dai problemi di quella terra. Non c'è
più lo Stato a vigilare sulla sorte dei suoi cittadini-lavoratori,
bastano poche euro a rendere non più competitivo lo stabilimento e a
chiuderlo per aprirne uno nuovo in Ungheria o in Cina.
La nuova formula politica ed economica sembra più legata all'economia
sociale di mercato, come voleva Keynes, alla soluzione ibrida del
problema, da affrontare di volta in volta, come fa Obama negli Stati
Uniti: si tratti di chiudere, di bombardare di dollari i mercati, di
assistere i disoccupati con sussidi e assicurazioni sulla malattia, di
defiscalizzare, di entrare nel capitale delle imprese e di
riconvertirle all'economia verde. Ma il liberalismo e il liberismo (il
mercatismo di Tremonti) sembrano proprio aver fatto il loro tempo, in
tutto il mondo. E' molto più probabile che il governo della Pdl si
orienti a politiche di mercato molto più stataliste, anche se
pragmatiche, “sociali”, confinando la visione della “rivoluzione
liberale” a un suggestivo slogan destinato solo alla storia dei
discorsi del Cavaliere.