mercoledì 8 aprile 2009

TETTAMANZI: MILANO COL CUORE IN MANO

L'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi è stato riconfermato alla guida della diocesi ambrosiana per altri due anni. Ecco l'intervista che appare sul numero di questa settimana di Famiglia Cristiana. Buona Pasqua a tutti!


Duemila euro per una madre cassintegrata a zero ore da gennaio, gravata da mutuo e bollette. Tremila euro a un ingegnere con tre figli piccoli senza stipendio per contratto a termine non rinnovato, la casa all’asta per insolvenza del mutuo e sfratto esecutivo a giugno 2009. Altri duemila a un artigiano rimasto senza lavoro per il fallimento dell’impresa nel dicembre 2008. I primi assegni del Fondo famiglia lavoro della diocesi di Milano voluto dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi sono già stati staccati.

Vecchie e nuove povertà si incrociano in questa via crucis sociale che sembra non avere fine: impiegati, operai, quadri, dirigenti, tutta gente scivolata in pochi mesi nella polvere. «All’inizio pensavo a una goccia nel mare, ora penso a più gocce vista la straordinaria risposta dei diocesani. Ho ricevuto lettere con dentro cinque, dieci euro destinati al Fondo, ma è ancora più straordinario quel che scrivevano nelle lettere», spiega il cardinale nel suo studio in Arcivescovado, che ha le finestre che si affacciano sulle guglie del Duomo, proprio davanti alla statua di don Guanella, uno degli eroi della carità ambrosiana. «Ma restano pur sempre gocce in un mare di povertà», aggiunge. «Le mie visite pastorali mi danno una conoscenza concreta delle sofferenze che toccano le famiglie dei lavoratori, degli imprenditori, di tanti artigiani. L’esperienza mi dice che la crisi è più radicata e diffusa di quello che appare sui giornali. I media propongono letture globali e tecniche della crisi: ma quel che vedo visitando la diocesi e incontrando le persone è che la sofferenza non è asettica, ma colpisce nel concreto. Al termine delle celebrazioni mi intrattengo a lungo a salutare uno a uno i fedeli e in molti mi raccontano del timore del lavoro che rischiano di perdere o hanno perso. La paura più grande è per il futuro della propria famiglia, dei figli, delle persone anziane e malate che devono sostenere. Naturalmente, il Fondo non basta, anche le istituzioni devono fare la propria parte. Ma se tutti – istituzioni, imprese, credito, volontariato, comunità cristiane, famiglie, il tessuto sociale nel suo complesso – faranno la propria parte nessuno cadrà nell’indigenza. Nessuno deve essere abbandonato».


Come è nata l’idea del Fondo lavoro famiglia della diocesi?
«Prima del Natale andavo riflettendo sulla crisi economica e finanziaria in atto nel mondo e su quanto ascoltavo direttamente nelle parrocchie. Mi sentivo fortemente interpellato come cittadino e come vescovo. Mi chiedevo: che cosa devo dire, secondo la verità evangelica e con un cuore di pastore, ai fedeli che la notte di Natale riempiranno il Duomo? Dal pulpito mi è venuto spontaneo aprire così l’omelia: "Questa notte che stiamo vivendo è segnata da una notizia di estrema semplicità e insieme di significato straordinario e unico. Che cosa c’è di più semplice di un bambino che nasce?". E ho aggiunto: "Il Natale ci chiama a uno slancio rinnovato, a un supplemento speciale di fraternità e solidarietà. I tempi che viviamo sono segnati dalla crisi finanziaria ed economica, con ricadute sulla società e sulle famiglie. Questo scenario che si va sviluppando impone a tutti noi una riflessione seria e responsabile". Ho cercato allora di mettermi, per primo, in discussione. Ho partecipato ai fedeli presenti in Duomo, quella notte, la domanda che sempre più mi bruciava dentro: "Io, come arcivescovo di Milano, cosa posso fare? Noi, come Chiesa ambrosiana, cosa possiamo fare?". Ho voluto dare una buona notizia, una notizia concreta. E così è nato il Fondo. Lo stesso deve valere per Pasqua, che deve diventare incarnazione dell’amore con gesti concreti di solidarietà».

Il cardinale di Milano tradizionalmente ha la possibilità di entrare in contatto con la classe dirigente ambrosiana e con quella borghesia produttiva lombarda che è considerata il volano dell’economia italiana. Questa classe dirigente è all’altezza della situazione?
«Le grandi famiglie nell’imprenditoria, attive da decenni, se non da secoli, stanno facendo ora i conti con la crisi così come li hanno già fatti negli anni Ottanta, prima ancora negli anni Settanta, al tempo della guerra, dopo il crack del ’29. Il rischio d’impresa, l’essere al passo con i tempi, l’affrontare in modo adeguato le stagioni floride e quelle austere sono tutte qualità che contraddistinguono gli imprenditori "grandi"».

Cosa intende per grandi?
«Grandi perché vivono bene la loro vocazione. Sì, non ho paura a usare questo termine. Essere imprenditore è una forma di servizio alla comunità quando è svolto con il giusto spirito e non solo per il guadagno immediato, magari ottenuto in deroga a ogni regola ed etica. Un imprenditore vero, grande, sa che la situazione di crisi non è un incidente imprevisto, ma una variabile che prima o poi entra in gioco. E l’imprenditore saggio si attrezza per tempo per affrontarla, sa che è uno dei suoi compiti».

E ne ha incontrati nella sua diocesi, di imprenditori saggi?
«Altro che. Proprio grazie a imprenditori così, molti mesi fa, ho potuto comprendere la portata, le dimensioni, le cause e gli effetti della crisi incipiente. La crisi sarà un momento di verifica e riflessione anche per gli imprenditori: chi non ha messo al centro il valore della persona – sia nel senso del lavoratore che del cliente da servire – ora soffre difficoltà ben maggiori, se non è già stato travolto dalla recessione. Tante aziende che hanno fondato il loro business solo sulla speculazione, su affari poco chiari e illeciti hanno già chiuso o sono in seria crisi. Il guaio è che a pagarne le conseguenze sono i dipendenti, spesso incolpevoli, e quei soggetti del mondo economico che si trovano trascinati nelle situazioni di difficoltà create da questi imprenditori spregiudicati».

Perché dice che la crisi può portare a un arricchimento interiore?
«Da molte parti si parla giustamente di solidarietà. Ma, mi domando, è possibile la solidarietà senza la sobrietà? Ne ha parlato Benedetto XVI nella sua omelia del 31 dicembre 2008, quando ha lanciato a tutti un appello: la crisi "chiede a tutti più sobrietà e solidarietà per venire in aiuto specialmente delle persone e delle famiglie in più serie difficoltà". Nella mia omelia della notte di Natale 2008 rivolgevo a tutti l’invocazione "a uno slancio rinnovato, a un supplemento speciale di fraternità e solidarietà". Una sfida a cambiare in modo radicale una cultura e un costume da noi molto comuni e diffusi, e cioè uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà, segno di giustizia prima ancora che di virtù».

Però gli economisti e la storia economica insegnano che il rischio del pauperismo, della "taccagneria", è quello di deprimere i consumi.
«Non si tratta di pauperismo ma di sobrietà, virtù non apprezzata, forse perché spesso fraintesa. La sobrietà è confusa con un vissuto che sa di risparmio minuzioso, di astensione dai consumi, di calcolo esasperato su tutto ciò che si potrebbe evitare di avere e di comperare. Il tutto limitato alla sfera economica del vivere. Ma la sobrietà autentica è tutt’altro, è uno stile di vita complessivo: sobrietà nelle parole, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nel vissuto quotidiano. La sobrietà intende guarire il nostro comportamento quotidiano dagli eccessi, riconducendolo alla "giusta misura". È una virtù che nasce e cresce attraverso un sapiente e coraggioso discernimento, che la mantiene intimamente collegata con la sua finalità: essere una via privilegiata che conduce alla solidarietà, alla condivisione vera di tutto ciò che è necessario per vivere secondo la dignità umana, che è di tutti, senza alcuna discriminazione».

Non basta la solidarietà?
«Non si può essere solidali senza essere sobri: altrimenti, si condividerebbe ciò che eccede alle nostre necessità. Occorre dare ben più del superfluo, secondo l’esempio della "vedova povera" del capitolo 21 del Vangelo di Luca, che ha saputo condividere tutto, considerando la propria offerta più necessaria che non il badare alla propria condizione. Per questo la crisi dà la possibilità di un incrocio straordinario: chi dona riceve moltissimo e chi riceve viene toccato da un dinamismo irresistibile che lo spinge a fare altrettanto, a donare a sua volta. Non si tratta solo di dare, ma di condividere: un’occasione straordinaria di educazione».

Milano è la città della Borsa e della finanza. Percepisce un clima diverso anche in questo mondo? C’è la consapevolezza che il sistema è saltato anche perché non si sono rispettati i princìpi basilari di etica finanziaria?
«Non sono né un operatore né un protagonista della vita finanziaria di Milano. Ma mi pare si stia diffondendo lentamente la consapevolezza che la crisi si sia originata – oltre che da eventi congiunturali – soprattutto dalla scarsa considerazione nella quale è stata tenuta la dimensione etica a livello finanziario. Si è agito senza pensare che dietro a titoli, obbligazioni, debiti cartolarizzati, prodotti finanziari, c’erano sempre delle persone concrete che da quegli strumenti aspettavano un vantaggio economico per sé e la propria famiglia. E in tanti hanno trovato solo imbrogli e ingenti perdite di denaro. Ma la responsabilità è anche di tante persone e famiglie che si sono lasciate attrarre dalla prospettiva del guadagno facile, da ottenere non con il lavoro, ma con l’azzardo. Magari per sostenere e incrementare uno stile di vita al disopra della proprie possibilità. Uno stile certamente non sobrio. La consapevolezza che occorre tornare al fondamento etico nella finanza si sta diffondendo. Magari silenziosamente, come se ci fosse timore ad affermare che quella che una volta veniva ritenuta la "mano invisibile" che faceva funzionare l’economia in realtà è visibilissima, concreta. E ha un nome: l’etica, appunto. L’etica che mette al centro la persona nella sua integralità».

Cosa può fare la gente di questa diocesi, che è tra le più laboriose e produttive del mondo, per risollevarsi?
«Non perdere la speranza, ricordarsi la propria storia di gente semplice ma di cuore, pronta a darsi una mano. Di gente che fa del lavoro un modo per dire la propria identità, la propria creatività, la propria vocazione, non tanto la via per arricchirsi. Confido che la nostra gente si ricordi che solo insieme, solo come comunità, cristiana e civile, dalla crisi si uscirà. Con dignità».