sabato 16 febbraio 2008

Napoli capitale d' Italia

C’eravamo fermati in un bar di Mergellina, Cesare e io, per un caffè come si deve. Era un sabato di gennaio ma l’aria era doce, la brezza profumava di mare, il sole del mattino spandeva una luce cruda e cangiante su quell’immensa scenografia di chiese e palazzi. La nave tufacea di Castel dell’Ovo era pronta a rimorchiare al largo la città.
«Napoli è sempre bella», esclamai. «Io la schifo», mi rispose distratto, mentre fingeva interesse per una sfogliatella. «Io la schifo». Me lo ripeteva ogni volta che mi permettevo di commentare ammirato una delle meraviglie della cartulina ’e Napule. Poteva essere uno scorcio dei vicoli, un monumento, un palazzo, una piazza, un declivio verso il mare, una quinta di quell’immenso presepe sconsacrato. «Quant’è bella ’sta città». E lui inesorabile: «Io la schifo».
Cesare Abbate è il fotoreporter che mi accompagna ogni volta che scendo a Napoli per raccontare una delle sue tante cose da schifare: un delitto di camorra, uno scandalo amministrativo, un giro nella banlieue partenopea di Scampia e ultimamente, a più riprese, la faccenda della monnezza, che ha offerto a tutti i giornalisti del mondo l’occasione per lunghi e istruttivi spazza-tour panoramici tra montagne di rifiuti. Un vero toccasana sul piano dell’immagine e del turismo.
Cesare è di Napoli Napoli, ripetuto due volte per sottolinearne la veracità, e non dà molta confidenza. Da giovane ha fatto l’ufficiale di cavalleria. Serio, lavoratore pignolo e scrupoloso come il 90 % dei napoletani rovinati da quell’altro 10 % che ha diffuso e imposto nel mondo la macchietta del napoletano supersimpatico, caciarone, pulcinellesco, chiagni e fotti e un po’ cialtrone.
Per distinguersi ancora di più fa persino le vacanze in Norvegia e in Irlanda e quando può si rifugia come un eremita a Roscigno, un paesino dimenticato e isolato sulle montagne del Cilento, con un solo abitante (densità demografica che per lui è già eccessiva). Ha scelto di consacrare la sua vita a immortalare questa terra bella e dannata dalla camorra. L’unica macchina che possiede è quella fotografica perché dice che col traffico napoletano lavorare con l’auto sarebbe impossibile. Gira in moto e ai posti di blocco gli agenti lo fermano insospettiti, perché mette sempre il casco.
È uno dei migliori fotoreporter della nuova generazione, sempre tra i primi ad arrivare sul luogo dell’avvenimento con la sua Guzzi e la sua Canon, ma sempre sognando quei bei servizi turistici che ogni tanto qualche rivista gli commissiona: porticcioli incastonati in baie mozzafiato, hotel ricamati nella magnificenza di Sorrento e della Costiera amalfitana, paesaggi di colline e vigneti alle falde del Vesuvio.
Ci avevo messo poco a capire che quel «Io la schifo», quel predicato che non ammetteva repliche e che al Nord non si usa, significava «Io l’amo Napoli, ma soffro perché non riesco ad accettarla in questo stato»; che si trattava di una disperata dichiarazione d’amore, come nella Malafemmena di Totò («te voglio bene e t’odio, nun te pozzo scurdà»). E avevo compreso tutto il dramma dei napoletani onesti.
Anche la scrittura è un atto d’amore. Se non l’amassimo perdutamente, se non fossimo stregati e ammaliati dalla sua bellezza smagliante, che c’importerebbe di scrivere di questa città?
«Certo che a Napoli bisogna abituarsi, ma ci si abitua a lei solo se la si ama», scrive Silvio Perrella in Giùnapoli. Ma l’amore non è tutto. Non ci sarebbe certo bisogno di un libro in più per sostenere che Napoli è una delle più grandi civiltà del mondo, simbolo della prodigalità della natura e della gioia autentica di vivere. Ci sono già i reportage dei viaggiatori del Grand Tour, i paesaggi decantati da Stendhal, il cinema immortale di Totò e De Sica, le Storie e leggende napoletane di Benedetto Croce, la canzone napoletana, le bellezze paesaggistiche, le sue meraviglie, l’oro di Giuseppe Marotta e degli altri scrittori, il teatro di Eduardo e tante, tante altre cose.
E nemmeno vogliamo fare la parte degli occasionali visitatori che, come scrive Raffaele La Capria, «vengono, guardano, criticano, approvano, disprezzano, emettono giudizi e covano pregiudizi». «Sterco di migratori» lo chiama Erri De Luca.
Vorrei soltanto capire e aiutare chi mi legge a capire. «Mi preoccupa tutto quello che non capisco», quale giornalista l’aveva detto? Quanto all’estraneità di chi racconta Napoli, credo che possa giovare, che sia un fatto positivo e non solo negativo, perché aiuta a mostrare una città senza quei pregiudizi incrostati da millenni che hanno i suoi abitanti. Quell’estraneità che forse anche i napoletani dovrebbero ritrovare. La forma più alta di moralità, sosteneva il filosofo Adorno, è non sentirsi mai a casa, a casa propria. E un po’ di moralità Napoli dovrebbe recuperarla, ammettiamolo.

Nella sua storia la città è stata occupata da svevi, normanni, angioini, aragonesi, spagnoli, austriaci, francesi, per non parlare degli americani, e ha visto giorni peggiori dell’emergenza rifiuti: la peste, le rivolte, il colera, la guerra. I giorni che facevano dire a Curzio Malaparte in La pelle, che «Cristo era napoletano», poiché «nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria».
Il popolo forse non odia nessuno, ma odiose restano le immagini del gennaio 2008 trasmesse in mondovisione. I cumuli di rifiuti, i roghi di fumo e diossina come in Vietnam, gli scarafaggi e i topi morti, la rabbia e la violenza davanti alla discarica di Pianura. Napoli come una gigantesca fogna, un girone dantesco di spazzatura e liquami mefitici. Le discariche ricolme, i camion della nettezza urbana fermi, le campagne inquinate. Che spettacolo mortificante.
La vera emergenza, quella che mi ha più colpito, è stata la chiusura delle scuole. La terza città d’Italia per numero di abitanti, la capitale del Sud di un Paese membro dell’Unione europea che non riesce più ad assicurare l’istruzione, che costringe in casa o in strada i suoi cittadini minori. Quei poveri bambini cui si è richiamato anche il commissario straordinario Gianni De Gennaro, il commissario dei 120 giorni, in una visita a Benevento. Se accadono cose così noi italiani dovremmo seriamente preoccuparci. Ne trarremo una lezione per il futuro?

Napoli è anche Italia. «Se nel bel corpo d’Italia la punta della gamba è lasciata andare in cancrena non è tutto il corpo che soffre e s’ammala?», ha sottolineato sul Corriere della sera Raffaele La Capria. Lo scrittore napoletano non vive più nella città da tempo, ma come tutti i suoi figli ne conserva la nostalgia nel profondo dell’anima.
Ha scritto parole accorate ai suoi fratelli che qui riporto: «Cari napoletani, è difficile trovare gente attaccata alla propria città più di voi. Quest’amore è proclamato non solo da versi e canzoni che vanno per il mondo, ma anche da rimpianti, ricordi, nostalgie, da una continua produzione di libri, di incisioni, di gouaches, di fotografie che tramandano la decantata bellezza della nostra città. So di napoletani che sognano Napoli e so di altri che per averla dovuta abbandonare sono morti. E allora come si spiega che voi abbiate assistito senza batter ciglio e con suprema indifferenza, quasi si trattasse di una città nemica da distruggere, a tutti gli scempi che negli anni hanno devastato la nostra città sino a renderla irriconoscibile? E ora assistiate a questa estrema derisione della monnezza, che se fosse accumulata in un punto farebbe una montagna più alta del Vesuvio? Quando la monnezza ha cominciato ad apparire nelle strade, perché nessun occhio l’ha guardata, si è allarmato, ha denunciato, o fatto qualcosa per fermarla in tempo? Fu distrazione, negligenza, abitudine, abulia, parassitismo, o fu mancanza di senso civico, di spirito di iniziativa, di classe dirigente, di coraggio intellettuale, di orgoglio,di cultura, di amore infine. O di che altro? Vogliamo domandarcelo una buona volta?».

Sbarco all’aeroporto di Capodichino in perfetto orario. Sulla Doganella, il vialone che finisce a piazza Carlo III, il tassista che mi porta in albergo ingaggia un duello con una Golf nera. La supera, poi viene sorpassato a sua volta, sbanda, devia di colpo a destra per portarlo sull’altra carreggiata. All’inizio sto zitto, tanto prima o poi smette, penso. Istintivamente cerco la cintura ma scopro che non c’è: è rimasta incastrata sotto il sedile. Ma l’autista non smette, e nemmeno la Golf. «All’anima ’i chi te mmuorto!». Una tarantella di colpi d’acceleratore, frenate, clacson e bestemmie.
A un certo punto mi incazzo e gli batto sulla spalla: «Vuole rallentare? E se è un camorrista e ci spara un colpo dal finestrino?». Finalmente si accorge della mia presenza. «E noi ci mettiamo il dito nella canna della pistola, dottò, e la facciamo esplodere in mille striscioline, come nei cartoni animati. Bum!», mi fa sornione guardandomi nello specchietto e io capisco di aver detto una cosa veramente cretina, mi rendo subito conto, vergognandomi, che mi merito quel pernacchio da un tassista napoletano. Però, ve la immaginate una scena simile a Milano? No, non ve l’immaginate perché è impossibile, nessun tassista di Linate ingaggerebbe un duello fast and furious, come in un film di 007, tanto più con un cliente a bordo.
La Campania risulta essere una delle regioni più povere d’Europa. Il Pil pro capite è sceso rispetto alla media europea dal 71,78 % al 68,4 %. In termini assoluti era di 14.700 euro e lì è rimasto. Eppure tra il 2001 e il 2006 in Campania sono arrivati fondi europei per 7,7 miliardi. Ma il tasso di disoccupazione è sceso dal 45,1 del 2002 al 44,1 dell’ultima rilevazione del 2006.
Napoli è lo specchio dell’Italia? Più che lo specchio è la fase acuta dei suoi mali, il suo nervo scoperto. Per certi versi anticipa il collasso di un Paese abbondantemente in declino, smarrito, fragile, confuso.
Ha scritto Adriano Sansa, magistrato ed ex sindaco di Genova, su Famiglia Cristiana: «Napoli rappresenta, in certa misura, il difetto dell’intero Paese. Ma lo eccede e lo esaspera. Là, quindi, si possono mettere alla prova i rimedi per la città, ma anche per tutta la nazione». Quale segnale più visibile del collasso della raccolta dei rifiuti, che ha trasformato la capitale del Sud in una discarica a cielo aperto, coprendola di sacchetti di monnezza come in un film grottesco e surreale di Fellini? «Non è improprio ravvisare nella capitale del Sud l’epicentro iperbolico dei mali che travagliano il nostro Paese», ha commentato Lorenzo Mondo su La Stampa.
In questo senso, Napoli capitale del Sud è anche capitale d’Italia, il centro nevralgico dove si incontrano questione settentrionale e questione meridionale. Perché è chiaro che le due questioni si tengono insieme. E il nodo dei due fili è proprio questa città.
In questa tesi colgo un avvenimento cruciale nell’elezione presidenziale di Giorgio Napolitano. La storia ha voluto che il parlamento italiano scegliesse come inquilino del Quirinale proprio un gran signore figlio di questa terra, che alla città ha dedicato buona parte della sua attività politica e che è sempre stato particolarmente sensibile ai temi della cultura meridionalista e al movimento per la rinascita del Mezzogiorno. Quando scende a Villa Rosebery, la dimora estiva della presidenza della Repubblica, con le sue siepi e i suoi pini secolari sulla collina di Posillipo, Giorgio Napolitano sembra essere venuto a vigilare sulla sua città, ad assicurarsi che sia ancora lì.
«Napoli è, come sapete, la mia città, ma penso sia cara a tutti gli italiani», sono state le sue prime parole da presidente della Repubblica. L’inquilino del Quirinale tornerà a esternare la sua apprensione per una città che versa, per dirla con le sue parole del maggio 2007, in una «crisi tragica».
«L’emergenza rifiuti» aveva detto nel marzo dello stesso anno, «è diventata un ostacolo gravissimo alla valorizzazione delle possibilità di sviluppo e della stessa immagine di Napoli e della Campania. Questa emergenza, che non si presenta con acutezza paragonabile in alcun’altra regione italiana, può essere superata solo se da parte di tutte le istituzioni si contribuisce alla ricerca delle soluzioni necessarie: facendo ciascuno la sua parte, senza chiusure localistiche, senza paralizzanti pregiudiziali e rigidità, e portando avanti un serio impegno per dare alle popolazioni consapevolezza dell’interesse comune, anziché assecondare ingiustificati timori e vere e proprie psicosi di rifiuti di qualsiasi proposta e forma di partecipazione allo sforzo complessivo resosi oramai urgente e indilazionabile per evitare il peggio».

Napoli, Italia. Sono molteplici le analogie tra la situazione italiana e quella napoletana. Provo a elencarne qualcuna: la latitanza e l’incapacità ormai cronica di decidere della classe politica; la crisi di fiducia nel futuro, pur conservando un enorme potenziale di risorse e di vitalità; la mancanza di attuare o portare a termine i progetti. A ben vedere i progetti si chiamano così solo in Europa: project, projet, Plan. In Italia quelli che altrove si chiamano progetti qui si dicono scommesse, come a Napoli, appunto, le grandi scommesse all’ombra del Vesuvio: la riqualificazione di Bagnoli, la bonifica di Napoli Est, il superamento dell’emergenza rifiuti, la sicurezza, l’aumento dell’occupazione, l’aumento della sicurezza, la Coppa America. Tutte scommesse non ancora vinte, per non dire perse.
Ma la situazione italiana porta ad altre analogie con quella napoletana: il senso civico sempre più evanescente; la frantumazione della società in tanti coriandoli, come ha detto il sociologo Giuseppe De Rita; la linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è sempre più sfumata, l’incapacità di fare sistema della classe dirigente e la chiusura in quello che Guicciardini chiamava il proprio particulare; quel sentirsi sempre in bilico tra l’emergenza e il disastro; una crisi acuta della legalità e un sistema giudiziario che scoppia; la crisi dei giovani, costretti a emigrare come negli anni ’60, a rispondere alla celebre esortazione di Eduardo, a quel fuitivinne che divenne simbolo dell’esodo di tanti intellettuali.
Siamo in una fase di transizione, come sempre, diceva Flaiano. A Napoli l’emergenza è eterna, come in tutta Italia, nel nostro Paese ci sono 84 commissari straordinari per altrettante emergenze, dall’alluvione di Parma nel 2002 ai mondiali di ciclismo, alla mancanza d’acqua a Reggio Calabria. Le montagne di spazzatura cresciute sulle strade di Napoli hanno offuscato l’immagine dei suoi amministratori, a partire da Antonio Bassolino, che si era creato la fama di risolutore dei problemi, costruita nei primi anni di governo del capoluogo con interventi mirati a recuperare il centro storico della città, con una politica culturale che a Napoli era sparita da decenni e che gli valse il titolo di nuovo rinascimento, oltre alla simpatia di quella borghesia che non lo aveva mai amato in quanto ex funzionario del pci e a un’inedita capacità di comunicatore.
Ma si potrebbe andare oltre anche sul piano antropologico: la tendenza a piangersi addosso non è forse un vizio degli italiani, anche dei più seri, onesti e acculturati? Una certa napoletanità, un certo senso di sfiducia e di fatalismo, non risparmia alcun italiano, nemmeno se è un leghista e abita a Cassano Magnago o a Treviso. Per tutto questo noi italiani, direbbe Benedetto Croce, «non possiamo non dirci napoletani».
Questo libro è una dichiarazione d’amore per Napoli, ma è stata la monnezza a far scattare la molla. Napoli oggi è come una tela del museo di Capodimonte coperta di polvere e imbrattata di lordura. Si vorrebbe contribuire a togliere i margini di sporcizia dal dipinto, restaurarlo, farlo tornare al suo splendore antico e solenne di capolavoro. Aiutare i napoletani a togliere la monnezza per restituirle bellezza.