martedì 13 maggio 2008

La NAPOLI DI RENZO ARBORE


Renzo Arbore è ancora più napoletano di quel che sembra (e già sembra molto). È vero, è nato a Foggia, e sul palco dei concerti della sua Orchestra italiana si diverte a scherzare sul fatto che i napoletani, quando vedevano passare uno vestito un po’ alla contadina, insomma un “cafone”, dicevano: «È arrivato ’o treno ’e Foggia».
In realtà, anche il suo sangue presenta quarti di napoletanità: la mamma di Arbore era una napoletana verace. Inoltre il padre (medico dentista, «collega del suocero di Peppino di Capri») aveva studiato e vissuto all’ombra del Vesuvio, dove rimangono molti suoi parenti. Tanto è vero che aveva voluto che anche il figlio si iscrivesse all’università per respirarne a pieni polmoni la cultura partenopea. «Comunque il rapporto tra la Puglia e Napoli è fortissimo. I contadini del Tavoliere e delle altre zone andavano a svernare per mesi proprio sotto il Vesuvio».
Il resto lo ha fatto il suo amore per questa città (di cui conosce gli angoli e i vicoli più reconditi) per la sua cultura, per le sue canzoni immortali che interpreta con l’Orchestra Italiana, per la musica che frequentava fin da quando suonava, ogni sabato, al circolo del jazz Uso (United State Organisation) del Dipartimento di Stato Americano, per le frequentazioni affettuose con Roberto Murolo e Renato Carosone. Una napoletanità che gli ha fatto guadagnare la cittadinanza onoraria della capitale del Sud, di cui è un ambasciatore internazionale con la sua orchestra (si sono esibiti persino davanti alla Muraglia cinese) e che emerge anche dai suoi tanti programmi televisivi e radiofonici (la galleria di napoletani scovati dal suo genio di talent scout o di personaggi valorizzati va da Troisi a De Crescenzo, da Pazzaglia, l’autore di Io mammata e tu, a Marisa Laurito).
«Negli anni ’60», rievoca Arbore, «Napoli era semplicemente meravigliosa, dolce e fantastica. Quando Kennedy la visitò, nel ’63, la definì bellissima e generosissima. Poi c’è stata la retorica di Lauro, il colera e la controretorica degli anni ’70, quando era di moda biasimare il repertorio delle canzoni napoletane e in particolare Chisto è o Paese do sole. Ma se Napoli è benedetta dal sole perché è esposta a sud, perché biasimarla? Poi ancora il Rinascimento di Bassolino con la grossa chance che l’ha ripulita: il G7. In passato c’era stato l’anno dello scudetto di Maradona, che le aveva restituito dignità e fierezza. Ricordo che andai a vedere l’ultima partita al San Paolo. Un tifoso mi disse: “Lo vedete come siamo educati?”. Era proprio orgoglioso. In realtà Napoli vive stagioni di paradiso e stagioni di inferno, alterna periodi di esaltazione ad altri in cui si butta giù. Non a caso il filosofo Vico, quello dei corsi e ricorsi storici, è napoletano».
- Oggi viviamo il ricorso storico della monnezza...
«E già. Ora è di nuovo afflitta da disoccupazione e camorra, oltre che dalla monnezza. Io mi chiedo: come possono i cittadini tollerare tutto questo? I napoletani del sì devono ribellarsi».
- Chi sono i napoletani del sì?
«Io distinguo un po’ in modo manicheo tra napoletani del sì, come i componenti della mia orchestra, cioè della voglia di fare, di costruire, di agire, quelli insomma che odiano camorra e monnezza; e napoletani del no: coloro che scuotono la testa dicendo “che dobbiamo fare? Tanto è così e nulla cambia”».
–E in questo momento prevalgono i napoletani del no...
«E già: in questo momento prevale il no. Noi registriamo a Napoli, a Secondigliano. Io la vedevo crescere per le strade la monnezza, giorno per giorno e chiedevo agli abitanti: ma come fate a sopportare? Poi l’emergenza è esplosa. Io dico che una certa Napoli si deve ribellare con maggior forza. Bisogna ricominciare da ciò che Napoli rappresenta nell’arte, dalla scuola di Capodimonte, dalla cultura, da Eduardo, da Croce. E non è solo un retaggio del passato. Perché c’è una Napoli dell’eccellenza, che lavora e fa cose meravigliose. Vengo dall’inaugurazione di uno shopping center disegnato da Renzo Piano che è una cosa spettacolare, la più grande città mercato d’Italia. Sono venuti perfino dalla Cina per copiarla. Bisogna fare punto e a capo e ricominciare, come diceva Troisi. Io nel mio piccolo lo faccio, ripartendo dalla bellezza, esportando in Italia e nel mondo un’immagine di Napoli pulita, fantasiosa e geniale».
– Alcuni le contestano che sia un’immagine un po’ edulcorata, tutta spaghetti, chitarra e mandolino, legata al passato...
«Ma guardi che le canzoni napoletane sono le canzoni del futuro, non del passato, perché non tramonteranno mai. Non dobbiamo dimenticarci che O sole mio è la canzone più ascoltata nel mondo, più di Summertime di Gershwin. Il tassista che mi ha preso in Cina ce l’aveva nella suoneria del telefonino. Quanto al mandolino, non c’è strumento più melodico, più magico».
– Segue le vicende della Chiesa napoletana?
«Di fronte alla crisi di una classe politica, una volta si diceva: meno male che c’è la magistratura. Oggi si dice: meno male che c’è la Chiesa. Le chiese di Napoli poi sono di una bellezza e di un fascino immensi. La mia preferita è Santa Chiara, vicino all’università, dove andavo alla vigilia di un esame. Poi ho scoperto che santa Chiara è la patrona della televisione. Chissà, forse era una premonizione».