domenica 22 febbraio 2009
La vita in rosa di Candido Cannavò
Ciao Direttore, ho avuto il privilegio di conoscerti e di saggiare tutta la tua umanità, quella che cercavi sempre dentro ogni campione. Quando leggevo la tua prosa scintillante e sapida non solo il fondo dei tuoi articoli ma tutto il mondo si colorava di rosa. I tuoi vent'anni da direttore della Gazzetta dello sport, il tuo trittico per raccontare gli ultimi, i disabili e i "pretacci" sono una grande lezione di giornalismo.
Scommetto che da lassù sei già al lavoro sul "pezzo".
Per chi volesse leggerla, mi permetto di ripubblicare l'intervista che gli feci un anno fa.
Eccola:
La Chiesa ne è piena, di "pretacci". Il "cronistaccio" Candido Cannavò ne ha scelti una ventina, i più noti, tra cui i milanesi don Virginio Colmegna e don Marcellino Brivio, i siciliani don Fortunato Di Noto e don Mario Golesano, erede di padre Puglisi, il giovane prete napoletano Luigi Merola, ex parroco del Rione Sanità. O ancora don Alessandro Santoro, anima delle Piagge, quartiere senza storia alla periferia di Firenze, monsignor Bregantini, già vescovo di Locri, don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, don Oreste Benzi, o don Andrea Gallo, il sacerdote che lui definisce «il rivoluzionario di Genova».
Con Pretacci. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede (Rizzoli, pagine 305, euro 18,00) Cannavò conclude idealmente la trilogia iniziata con un reportage tra i carcerati e un libro di storie di disabili. Un lungo viaggio nella sofferenza che si è trasformata in una straordinaria fonte di vitalità, di incontri: «Un arricchimento unico, che mi ha insegnato a vivere ancor più intensamente, che mi ha offerto la gioia più bella della mia vita».
Se lo vedi o passeggi con lui per le strade di Brera, sembra che tutto si colori di rosa, il colore della sua Gazzetta dello sport, di cui è stato direttore per 19 anni. Una suggestione insopprimibile. Cannavò è un’icona del giornalismo sportivo, ma è anche immune da qualunque sussiego cui avrebbe diritto, a 78 gagliardissimi anni e con una carriera del genere dietro le spalle. Invece è rimasto un "cronistaccio" come ai tempi in cui faceva il corrispondente della "rosea" da Catania, sua città natale. Ha un nome volteriano che suggerisce leggerezza e velocità mercuriale, ma preferisce percorrere l’Italia in treno, come ha fatto per questo suo reportage. E infatti una delle storie più riuscite del suo Pretacci, edito da Rizzoli, è il racconto del viaggio verso Locri, partendo dalla stazione di Sant’Eufemia Lamezia, dove, prima di imbarcarsi su una vecchia e impolverata littorina a nafta, incontra Gennaro, addetto alla clientela di Trenitalia, ma talmente cordiale e cerimonioso che nell’intrattenimento, «tra una gentilezza e l’altra», come in un romanzo di Achille Campanile, fa perdere il treno a una studentessa di archeologia di Siracusa. Il viaggio su quel residuato ferroviario che si avvia senza fretta verso Locri si trasforma in un prodigio: «Sfrontatamente, protetto dai miei capelli grigi, quasi bianchi, vendemmio grappoli di storie avvincenti: ragazzi calabresi che abbandonano il binario unico di un’esistenza pigra e fatalista, perseguono idee originali e, come la ragazza dell’archeologia, fuggono verso Roma, Milano, Torino e ogni tanto tornano a fare i conti con la loro terra».
Quello con monsignor Bregantini è l’incontro che più lo ha appassionato. Nella sua celeberrima rubrica sulla "rosea", «Fatemi capire», aveva scritto parole di fuoco quando il vescovo da Locri venne trasferito a Campobasso. «Lo definii il Van Basten della cristianità».
La caratteristica di Cannavò è senza dubbio l’impronta umanistica di ogni suo articolo («Ho sempre cercato l’uomo oltre l’atleta») e non stupisce che abbia voluto andare oltre il perimetro del giornalismo sportivo. Tra i suoi campioni preferiti ci sono Facchetti («Ha preso due ammonizioni in tutta la sua vita») e Bartali. Tra i contemporanei, un posto d’onore lo riserva a Paolo Maldini.
In fondo Cannavò non ha fatto che intervistare e raccontare dei campioni della fede, dei «Gattusi», lui li definisce, preti nati quadrati che non muoiono tondi, «gente che si sporca la tonaca». Per noi l’unico limite di questo libro, accentuato nella prefazione di Gian Antonio Stella, è quello di contrapporre manicheisticamente la Chiesa di questi preti alla Chiesa gerarchica, il non aver compreso i fili, a volte discreti, a volte perfino invisibili, ma sempre saldi, che ne fanno, pur nella diversità, una Chiesa sola.
Quanto a Gattuso è da sempre uno dei suoi campioni preferiti, «una meraviglia di campione», racconta, «quando è venuto con me a San Vittore si è presentato così: potrei essere tra di voi perché molti miei amici hanno fatto la stessa fine. Mi ha salvato il calcio. La differenza tra me e voi sta nel pallone».
La favola rosa di Cannavò è quella di un ragazzino rimasto orfano a cinque anni che voleva fare il medico ed è diventato un grande giornalista sportivo. «Ogni volta che varco questo palazzo volgo un pensiero a dove sono partito, a mia madre e a quella casa catanese di via Minoriti 10 dove la sera, dopo la guerra, io e i miei cinque fratelli andavamo a letto con un’insalata di limoni nello stomaco, e basta», mi dice mentre lo riaccompagno verso via Solferino.
Sulla soglia del portone apre il libro e mi legge a voce l’ultima pagina scorrendo le righe con il dito indice. Parlano della festa catanese di Ognina, la Madonna bambina, della processione sulle barche che si spinge fino ad Aci Castello, da dove si avvistano i faraglioni di Polifemo nella Trezza dei Malavoglia: «Non so se sia pura suggestione: ma in quella Madonna sballottata dalle onde, il precetto della condivisione diventa poesia. La Chiesa esce dal Tempio e va anche per mare dove le divisioni non esistono. E non importa se il mare sia agitato come nell’ultimo 8 settembre, la Madonna non si ferma, sorride, ci dà coraggio». E mentre mi giro di spalle, dopo averlo salutato, mi accorgo con la coda dell’occhio che si è commosso fino alle lacrime.
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