venerdì 20 febbraio 2009
DOPO VELTRONI
“Si chiude una stagione. Walter Veltroni se ne va lasciando un partito a pezzi, ma a ben vedere i pezzi ci sono sempre stati, il problema era metterli insieme, questi pezzi”, commenta a caldo il professor Roberto Cartocci, docente di Scienza della politica all’Università di Bologna. Per il quale il principale partito d’opposizione non è comunque all’anno zero.
La fusione fredda del Partito democratico che doveva mettere insieme diessini, cattolici di estrazione popolare, dipietristi e ulivisti secondo lei non ha mai funzionato?
“Diciamo che i legami erano molto fragili. Veltroni ha fatto un’opera meritoria accettando la nomination e lavorando per diciotto mesi. Però dobbiamo dire che solo con la sua uscita di scena si chiude questo processo di transizione del Partito democratico, ora al situazione è più chiara, paradossalmente”.
Prima non lo era?
“Facciano un passo indietro e torniamo alla nomination di Veltroni. La situazione era anomala, se vogliamo. C’era un premier ulivista in carica, Romano Prodi, e un segretario di un nuovo partito già designato. Il governo Prodi, frutto dell’unione di diverse componenti, era già gracilino di suo: l’arrivo di Veltroni non lo ha certo rafforzato, ma gettato un’ombra. Caduto il governo Prodi Veltroni ha poi dovuto prendere le distanze del passato e creare una “cosa” diversa. Bisognava mantenere certe tradizioni ma anche rompere i legami con una stagione che doveva essre diversa e un’esperienza politica differente, indicando una strada nuova. Bisognava contemperare il vecchio e il nuovo. Cosa non facile”.
-E infatti è cominciata la stagione dei “ma anche”.
“Sì ma dobbiamo riconoscergli una mossa piuttosto geniale. Rovinata da una seconda mossa sbagliata”.
Partiamo dalla prima, quella geniale…
“Quella di dire: noi andiamo alle elezioni politiche da soli. Ha dimostrato la forza della politica. La sua decisione ha rimescolato le carte e fatto eleggere un Parlamento diverso, che ha liquidato la sinistra radicale, la zavorra che tra l’altro finiva sempre con l’azzoppare il governo. Un Parlamento con finalmente quattro o cinque partiti al massimo, come nei grandi Paesi di tradizione democratica”.
E quale è stata la mossa sbagliata?
“Imbarcare Di Pietro. E’ stato l’inizio della fine, i guai di Veltroni sono cominciati tutti lì. Prima ha dato un salvagente all’Idv. La quale per ricambiare ha cominciato a fare opposizione dall’interno”.
Poi però ne ha preso le distanze.
“Sì, ma a quel punto la frittata era fatta: ormai Veltroni aveva il nemico in casa, se così si può dire. Di Pietro faceva la vera opposizione, gli ha rubato la piazza e la scena, di fronte alla quale il Pd ha balbettato, impacciato com’era. Impedendogli tra l’altro di propendere in maniera netta per la riforma della giustizia”.
“Basta farsi del male”, ha detto Veltroni abbandonando la leqadership del Pd. A chi o a che cosa alludeva secondo lei?
“Potrebbe essere un’allusione alla dinamica interna, ai contorcimenti del suo partito”.
Con l’uscita di Veltroni è finito anche il Pd?
“No, non credo. Con Veltroni finisce questa fase di transizione cominciata con Prodi, continuata con l’affiancamento scomodo, poi con la prevedibile sconfitta alle elezioni e terminata con l’ultimo atto di ieri. A questo punto le cose si chiariscono: si dovrebbe entrare in una fase di normalità. Ci sarà un Congresso e ci sarà un leader che dovrà condurre una battaglia politica contro Berlusconi”.
Crede che alle difficoltà attuali e alla sconfitta in Sardegna abbiano contribuito le lacerazioni tra i laici e i cattolici in seno al partito?
Questo è stato il punto chiave. E credo anche che sia il punto chiave su cui si gioca il futuro del Partito democratico. Vi sono temi su cui la base del Pd è molto divisa, a cominciare da quelli di bioetica. In merito il Pd ha al suo interno anime molto diverse, poco conciliabili tra loro. Su temi come eutanasia e aborto la componente diessina-laica ha sempre messo in difficoltà la componente cattolica. Certo la congiuntura non ha giovato a Velroni”.
Chi vede come successore di Veltroni? Si è parlato di Bersani, che avrebbe il “patronage” di D’Alema
“Mi ha molto sorpreso sentir D’Alema affermare candidamente nei giorni scorsi che secondo lui Bersani poteva essere un candidato valido. Più che una candidatura mi è parso il dissoterramento di un’ascia di guerra. Comunque credo che il futuro candidato del Pd debba emergere da un congresso. Da cui mi auguro una autentica lotta per la conquista del partito. La designazione dall’alto con successiva legittimazione popolare con le primarie secondo me serve a poco perché le primarie a quel punto semmai lo indeboliscono. Le primarie è meglio farle prima, come è avvenuto a Firenze, dove c’è stata una bella competizione con la vittoria di un outsider”.