martedì 3 marzo 2009
IL FANTASMA DEL PROTEZIONISMO
Un fantasma si aggira per l’Europa: il protezionismo. Lo sottolinea la Banca centrale europea, che – dopo aver rivisto al ribasso le stime dell’inflazione e al rialzo quelle sulla disoccupazione, con una decrescita “senza precedenti” in tutto il vecchio (e stanco) Continente - di fatto fa proprie le argomentazioni dell’Economist, il giornale della City che in copertina lo aveva paragonato al risveglio di uno zombie, un morto vivente disseppellito da riseppellire al più presto. Per l’istituto di Francoforte “l’impatto del protezionismo sulla crescita economica e sul benessere delle persone è sostanzialmente negativo”. Non solo, ma viene chiesto ai governi europei che hanno visto incrementare il disavanzo pubblico a causa della crisi di ristabilire “quanto prima un impegno credibile a favore degli obiettivi di bilancio a medio termine”. Un po’ rimettere il dentrificio nel tubetto.
L’ammonimento della Bce fa venire in mente la chiusura delle stalle quando i buoi sono scappati. In Francia Sarkozy ha messo in campo colossali aiuti per l’industria dell’auto. In Germania la Merkel sta facendo lo stesso. In Inghilterra Gordon Brown, mentre bacchetta gli operai inglesi che si ribellano ai flussi di immigrazione degli specializzati italiani, continua a puntellare le banche a suon di sterline. Ma il caso davvero emblematico è la patria del liberismo: l’America, dove Obama ha stanziato mille miliardi di dollari per finanziare l’economia aggredita da una continua emorragia di posti di lavoro (ma altri miliardi arriveranno, sempre a spese del debito pubblico, non passa giorno in cui non si ha notizia di decine di migliaia di persone che perdono il lavoro). L’unica soluzione è immettere capitali a spese dei contribuenti, sperando che il cavallo beva e che lo stimolo economico prima o poi riavvii la Corporate America. Una politica non proprio liberista.
“We are all socialist now”, titola Newsweek, ora siamo tutti socialisti. “Siamo diventati perfino francesi”, scrive la firma economica Michael Freedman, alludendo allo stile-sarko di Obama in economia: “Sostenendo le regole del buy american, che orienteranno gli stimoli di spesa verso i prodotti manufatturieri domestici, i membri dell’amministrazione di Obama stanno assecondando la vecchia cultura europea del patriottismo economico”. Tutte le più recenti operazioni di salvataggio recenti si sono svolte all’insegna del patriottismo. L’epoca del “big government” dello Stato che decide. Nel recente mondial forum di Davos il superpremier russo Putin e il primo ministro cinese Wen Jiabao hanno persino esaltato pubblicamente il loro capitalismo di Stato e salutato il cambio di rotta dgli altri Paesi industrializzati. Come se avessero detto ironicamente “Benvenuti tra noi”.
All’Italia dunque non resta che seguire (temporaneamente) la stessa strada, per non ritrovarsi come il vaso di coccio in meno ai vasi di ferro di manzoniana memoria. E’ vero che, come dice l’Economist, il libero commercio incoraggia la specializzazione, porta prosperità a medio termine nei mercati, alloca le risorse e i capitali in modo più efficiente. Ma solo un vertice mondiale, una Bretton Woods del Duemila, con regole certe e condivise, potrebbero invertire il cambio di rotta di questi mesi, dovuti al forte desiderio di mantenere lavoro e capitali nel proprio Paese. Ecco perchè molto probabilmente l’ammonimento della Bce verrà percepito come parole nel vento. Al momento i Governi, anzi, i Grandi Governi sono troppo impegnati nell’erigere fortilizi in difesa dell’industria nazionale e dei loro posti di lavoro per pensare a dopo domani.