lunedì 2 marzo 2009

IL PIL NON E' TUTTO


Coraggio, il Pil non è tutto nella vita. E nemmeno nell’economia. Non è per anticonformismo, e nemmeno per celebrare il “tanto peggio tanto meglio”, ma è bene non drammatizzare la caduta di un punto percentuale del Prodotto interno lordo. Lo diceva già Bob Kennedy nel celebre discorso sulla crescita pronunciato all’università del Kansas: “Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini”. Sembra scritta ieri, invece era il marzo del 1968. Perché, come diceva il ministro della Giustizia americano ,“il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Valeva e vale per l’America, ma anche per il mondo, Italia compresa.

Dunque non buttiamoci giù, perché stiamo parlando di un indicatore della produzione complessiva di beni e servizi venduti sul mercato, che non ci dice cosa è bene e cosa è male che sia venduto, non coglie l’aumento della differenza tra ricchi e poveri, non è depurato dell’impatto ambientale di certe imprese, non misura l’efficienza nazionale o il benessere sociale. E non è nemmeno il riassunto di salute di un intero Paese. Tanto è vero che negli Usa il sistema sanitario conta in termini di Pil più di quello francese, che però è certamente il doppio dell’efficienza del sistema americano. Prendere il Pil come metro del benessere confonde solo le idee. Lo diceva già l’economista Simon Kuznets, Nobel per i suoi studi sulal crescita, che è stato uno degli inventori del Pil. E, per venire ai giorni nostri, anche il Nobel Amartya Sen asserisce che non basta per certificare l’economia. Per stare a casa nostra, va innanzitutto citato Giorgio Ruffolo, che scherza rovesciando l’acronimo di Pil in Lip: lordura interna prodotta. Perché il Pil non è depurato dell’impatto sull’ambiente delle imprese e dei servizi, dalla monnezza all’inquinamento. Ruffolo suggerisce indici più elaborati, che misurino anche lo stato delle cose per ambiente, sanità, benessere e istruzione. In Francia ci sta lavorando una commissione istituita da Sarkozy. Si chiama “Commissione sulla misurazione delle performance economiche e del progresso sociale. Ne fanno parte vari Nobel dell’economia, Sen a Stiglitz. Lo stesso ministro dell’Economia Tremonti ha detto più volte che il Pil non fotografa certi punti di forza dell’economia nazionale, come il risparmio delle famiglie e il ruolo del volontariato.

Insomma: il Pil non equivale al progresso. Anche perché chi spende spesso lo fa sbagliando, esagerando, inquinando, soffrendo. E’ più felice un signore che spende diecimila euro per curarsi da una malattia o uno che è sano e se li tiene in banca? Per il Pil la maggiore crescita è figlia del primo, ma la felicità probabilmente appartiene al secondo.

La teoria della razionalità dei mercati, della mano invisibile che rimette tutto posto, ha fatto il suo termpo. E il Pil, feticcio del liberismo, della crescita continua e indifferenziata (voglio tutto e di più), appartiene a quel tempo. Meglio fare di necessità virtù, riflettere su dove vogliamo, rimboccarsi le maniche e prendere un’altra direzione per ritornare a competere, ricalibrare una certa idea di mercato e di intrapresa, magari puntare su una finanza più equa, improntata alla giustizia sociale, e su un’industria più pulita. In America lo stanno già facendo, o almeno hanno annunciato di volerlo fare.