sabato 25 aprile 2009

IL POKER DI MARCHIONNE


“Il poker industriale è un gioco familiare per Mr Sergio Marchionne” commenta il prestigioso settimanale della City “Economist” sul numero in edicola oggi, in un lusinghiero profilo dell’amministratore delegato del Gruppo Fiat. E in effetti nessun gioco come il poker permette di trasformarsi di volta in volta di rovesciare le sorti. La storia dell’outsider Marchionne è tutta qui. L’ “Economist” ricorda la “spettacolare ripresa” del gruppo Fiat, con il capolavoro giuridico del risarcimento da parte della General Motors di due milioni di dollari in cambio della rinuncia a far valere il “put” che avrebbe costretto il colosso GM ad acquistare tutto il boccone del Lingotto.

Sempre spiazzante questo manager nato in Italia ma cresciuto in Canada, che pensa in inglese, abita tra Torino, il Canada, l’America e la Svizzera.

Al gruppo Fiat è arrivato spazzando via abitudini e preconcetti cristallizzati da cent’anni di gestione sabauda, una specie di Mary Poppins in pullover. A una convention di giovani laureati che avevano appena conseguito un master gli chiesero quali erano i requisiti per diventare un manager del Lingotto. Lui rispose: “Dipende, in una divisione ho appena assunto un diplomato al posto di comando, perché l’esperienza spesso è più imòortante”. A volte è così. “Zero tituli”, direbbe Mourinho, ma tanta esperienza e intelligenza. Detto da uno che ha tre lauree (economia e commercio, giurisprudenza e filosofia) fa una certa impressione.

Ora gli italiani, gli americani, il mondo, i mercati e soprattutto i dipendenti aspettano il finale di una contesa che vede come protagonisti Marchionne, il Tesoro americano, gli attuali manager della Chrysler, i sindacati e gli obbligazionisti della più piccola delle Big Three, le tre grandi aziende automobilistiche americane (le altre due sono GM e Ford). Due le chance: abbandonare il tavolo e lasciare che il colosso dai piedi d’argilla finisca in bancarotta o rilevarla e controllarla, divenendo il numero uno e imponendo (esattamente come fece in Fiat quando vi arrivò, nel 2004) la sua nuova struttura organizzativa e dirigente. Cosa che fa tremare le vene ai polsi a non pochi dirigenti Chrysler. In pochi mesi Marchionne ha saputo fare di necessità virtù, dimostrando come Sun Tzu nell’ “arte della guerra” che il nemico è meglio sottometterlo che sconfiggerlo e cancellarlo. La tecnologia delle “piccole” Fiat è diventata la potenziale piattaforma per riconvertire l’industria autromobilistica americana, piena di macchinoni a quattro ruote che consumano e inquinano. Marchionne ha entusiasmato gli americani per la forte personalità. Ma perché dovrebbe riuscire dove altri hanno fallito? La risposta è abbastanza semplice: perché l’ha già fatto. Quando è entrato alla Fiat il colosso automobilistico americano era sull’orlo del disastro. In pochi mesi lo ha trasformato e ha potenziato il suo core-businness, l’automobile, con nuovi modelli. E ancora si racconta delle facce sbigottite degli ingegneri torinesi, tutta gente in gamba, che veniva dal Politecnico, quando ha imposto la realizzazione di nuovi modelli in 18 mesi anziché 26. Così è nata la Fiat ‘500, simbolo del Rinascimento del Lingotto. Poi la crisi dell’auto, la più spaventosa degli ultimi cinquant’anni, ma ancora una volta la soluzione che ha trasformato la Fiat da preda a cacciatrice, con lo scambio del capitale Chrysler in cambio delle piattaforme tecnologiche per auto piccole e non inquinanti. Oltretutto Marchionne è convinto che per stare sul mercato Fiat deve raddoppiare la sua massa critica. Con Chrysler dovrebbe essere così. L’Italia e il Made in Italy ci fanno un’ottima figura. Senza contare il valore di una preda che non è più cacciata ma diventa cacciatrice.