E’ possibile dare un consiglio, anzi fare un appello ai politici e ai candidati di ogni schieramento alle prese con la campagna elettorale per le amministrative e le europee? Se è possibile, il consiglio, l’appello accorato è questo: leggetevi bene il rapporto Istat del 2008. Dimenticate tensioni, polemiche, critiche, crisi coniugali eccellenti, veline e meteorine, numero dei parlamentari, ma anche questioni legate alla sicurezza e alla presunta invasione di clandestini e concentratevi su quella che è la vera emergenza del Paese, la vera questione settentrionale e meridionale: la crisi economica, la disoccupazione e l’impoverimento delle famiglie. Una crisi che va a corrodere, come un virus letale, proprio il fulcro, il cuore che pompa il sangue a tutto l’organismo familiare, l’asse portante di tutto: il capofamiglia.
E’ questo l’identikit del “nuovo disoccupato” tracciato dall’Istat: di sesso maschile, tra i 35 e i 54 anni, residente nelle regioni del Centro e del Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, sposato o convivente. E naturalmente con figli da mantenere. Nella maggior parte dei casi ha perso il lavoro alle dipendenze dell’industria. Nella maggior parte dei casi non riesce e rientrare nel mondo del lavoro per livello di scolarizzazione e soprattutto per età, come se l’esperienza, anche nell’era della globalizzazione, non fosse più un valore, un immenso patrimonio al servizio di un’azienda. “Un aspetto preoccupante”, si legge nel rapporto è la disoccupazione, la precarietà o l’abbassamento di livello di impiego di un numero sempre crescente di “buoni padri di famiglia”, come vengono descritti nei testi di diritto o di economia i cittadini che fanno da paradigma di conduzione virtuosa per eccellenza. Tanto per capire le proporzioni tra il 2007 e il 2008 gli occupati appartenenti a questo segmento sono stati 107 mila in meno, quelli con una occupazione part-time 17 mila in più.
Il rapporto sull’emergenza occupazionale del “buon padre di famiglia” viene diffuso a meno di 24 ore dall’allarme lanciato dal cardinale Bagnasco sulla gravità delle conseguenze sociali della crisi economica e sulla modestia degli ammortizzatori sociali finora utilizzati, fondamentali proprio nei confronti di quei lavoratori che devono mantenere la famiglia oltre che sé stessi. Le parole del presidente dei vescovi italiani si erano persino guadagnate le critiche (a volte addirittura un po’ piccate) di alcuni esponenti del Governo: i dati empirici parlano di una disoccupazione modesta, gli italiani sono i più difesi dal punto di vista degli ammortizzatori e delle tutele. Cose così. Insomma era meglio indulgere all’ottimismo e dannoso abbandonarsi al pessimismo e possibilmente, pur con tutto il rispetto, la stima la simpatia, la devozione per i prelati e i parroci, sarebbe stato più opportuno non disturbare il manovratore.
Ma la realtà è un’altra, ben presente a una rete capillare di diocesi e parrocchie che ha recepito per prima la gravità di una crisi che non risparmia milioni di famiglie. E come avrebbe potuto essere diversamente? I parroci e i vescovi vivono in mezzo alla gente, sanno quali sono le loro esigenze, conoscono lo stato della fatica del vivere quotidiano. Proprio per questo i vari fondi “famiglia e lavoro” messi in campo per tamponare le emergenze sociali sono attivi ormai da mesi, anche se naturalmente non bastano a risolvere la situazione. Una famigli su cinque, conferma l’Istat col freddo ma efficace linguaggio dei numeri, ha difficoltà di vario tipo: durante l’anno si è trovata senza soldi per fare la spesa, comprare un vestito, riscattare un mutuo.
L’ottimismo è importante per innestare fiducia e rilanciare l’economia, ma non basta, soprattutto se è associato non a soluzioni e iniziative reali ma alla semplice sottovalutazione del problema. Non basta dire a chi ha perso il posto e deve mantenere una famiglia “coraggio il peggio passato”. Perché il peggio è ancora lì, bussa ed entra ogni giorno alla porta.