sabato 31 maggio 2008

CI VEDIAMO DA MARIO


Le “considerazioni finali” della relazione del governatore di Bankitalia Mario Draghi hanno conquistato il plauso quasi incondizionato di governo, confindustria, sindacati, maggioranza e opposizione. Il premier Berlusconi si è spinto a dichiarare che quanto è stato enunciato da Draghi è esattamente quanto ha intenzione di fare il suo governo. Anche la presidente degli imprenditori Marcegaglia ha parlato di “piena sintonia”. I sindacati non sono stati da meno, solo un po’ più prudenti. Cosa diceva la relazione del governatore? Sostanzialmente che il nostro Paese è ammalato di tasse: la pressione negli ultimi due anni è aumentata di 2,8 punti e ha raggiunto i livelli del suo massimo storico, nel 1997, “al culmine degli sforzi fatti per entrare nei parametri di Maastricht”. A quel tempo Prodi e Ciampi ci chiesero un salasso fiscale (poi parzialmente rimborsato) per entrare in Europa. Oggi che in Europa ci siamo già non si capisce il perché di uno fardello del genere, anche perché non ne vediamo i risultati; le opere pubbliche sono ferme in cantiere, la macchina amministrativa è tutt’altro che efficiente. Draghi non lo dice, ma la percezione è che la spesa statale vada a coprire spesso i costi di inefficienze croniche.
Il secondo dato fondamentale è che i redditi, specialmente quelli delle famiglie povere, sono troppo bassi per sopportare l’ondata inflattiva che stiamo vivendo e il caroprezzi generato. L’Istat ha segnalato l’ennesima impennata, dovuta al petolio e agli alimentari. Il pane è aumentato del 12,9 per cento, la pasta di oltre il 20 per cento, mediamente siamo al 3,6 di tasso medio di inflazione, il valore più alto dal 1996. L’incubo si chiama stagflazione, come ai tempi della crisi del Kippur, negli anni Settanta: stagnazione più inflazione, una miscela malefica difficilmente aggredibile. Fortunatamente l’euro forte che tanto ci costò in termini di redistribuzione del reddito durante il “changeover”, in questo momento ci sta proteggendo da “tsunami” inflattivi. L’inflazione è chiamata non a caso “la tassa dei poveri” perché aggredisce prima di tutto i redditi deboli. Draghi non ha mancato di ricordarlo, avremmo potuto ritrovarci in condizioni ben peggiori con la nostra liretta svalutata. Inoltre Bankitalia continua a credere in un ritorno al futuro: “Il Paese ha desiderio, ambizione, risorse per tornare a crescere”.
Ora però è il momento in cui alle parole di Draghi devono corrispondere i fatti di Berlusconi e Tremonti. I provvedimenti sui mutui e la cancellazione dell’Ici, oltre alla detassazione degli straodinari, sono un segnale forte ma non possono bastare. La situazione è difficilissima: la congiuntura stagnante del 2007 continuerà nel 2008.
I conti pubblici ci dicono che è finita l’epoca dei “tesoretti”, ovvero degli extragettiti dovuti a un aumento della produzione. Anzi, la ragioneria di Stato ci avverte che quest’anno le entrate sono in calo. Come farà Tremonti ad abbassare la pressione fiscale e al contempo favorire la produttività? Basterà la finanziaria estiva di dieci miliardi, che prevede un giro di vite sui costi di gestione della macchina pubblica (riduzione del 20 per cento in tre anni) in importanti settori come la sanità, la scuola e il pubblico impiego? Quello di un taglio alla spesa consistente e decisivo è un’impresa in cui non è mai riuscito nessuno, nemmeno al tempo dei famosi tetti di spesa. Draghi parla anche di favorire il mercato per i giovani (i trentenni sono una generazione praticamente “saltata”, che non riesce a inserirsi nel ciclo produttivo) e suggerisce di operare ancora una volta sulle pensioni, innalzando l’età media di pensionamento. Berlusconi lo seguirà anche in questo?