
Udite udite, siamo diventati il “Messico d’Europa”, per dirla con l’ex ministro Ferrero. Quella italiana è ancora una delle economie più avanzate del mondo, ma è ingabbiata da “vincoli strutturali” tali da trascinarla all’indietro nel tempo, giù giù fino al Dopoguerra, quando eravamo più poveri. Non stiamo esagerando: l’Italia di oggi, come quella di 60 anni fa, è un’Italia impoverita. Meno misera di allora, non c’è dubbio, ma meno giovane ma più spaventata, con meno speranze e voglia di fare, di ricostruire, di produrre. E non c’è nessun piano Marshall che ci dia una mano a investire una voglia di fare che non c’è. Abbiamo tre milioni di inattivi, cioé di gente che ha perso il lavoro e ha ormai rinunciato a cercarne un altro. Siamo scivolati sotto la media europea: addirittura ultimi come crescita. Le retribuzioni reali sono largamente più basse rispetto agli altri Paesi di Eurolandia. Questo calo di produzione e di crescita fa sì che ormai il 6 per cento della popolazione non riesce a fare un pasto adeguato ogni due giorni, il dieci per cento non si scalda abbastanza come mastro Geppetto, sei italiani su dieci non riescono a risparmiare un solo centesimo, il 14 per cento non arriva ala fine del fine mese e il 38,7 per cento, che significa all’incirca due italiani su cinque, non riesce a fare nemmeno una settimana di ferie l’anno. Infine, per completare il quadro, quasi un terzo degli italiani non riesce ad affrontare un imprevisto di seicento euro. La fotografia scattata dall’Istat, nel suo rapporto 2007, è quella di un Paese che arranca, sempre più povero, che tutto sommato ha tenuto di fronte alla “spallata” dei mercati cinesi e indiani, le nuove superpotenze economiche del Duemila, disponendo fortunatamente di imprese di eccellenza che esportano ai massimi livelli. Ma che deve darsi una mossa. Il presidente dell’Istat Biggeri ci descrive come una specie di formicaio dentro un labirinto, con tante formiche agitate, ma “senza una direzione definita”.
Quel che preoccupa è che non ci sono particolari prospettive di crescita a medio e lungo termine. La cosiddetta “direzione definita”. E’ vero, molte aziende hanno saputo reagire alla globalizzazione e si sono riconvertite, e questa è la causa del “prudente ottimismo” dell’Istat. Ma non basta. Coesistono cioè realtà economiche e sociali «solide ed avanzate, in alcuni casi di eccellenza, ma anche aree deboli e di vulnerabilità dei contesti settoriali e territoriali, delle imprese, delle famiglie, degli individui». Troppo pochi “animal spirit”. Una larga parte delle imprese italiane si è seduta, adotta ancora, infatti, “strutture organizzative e modelli di comportamento che mirano a realizzare soltanto un reddito stabile e adeguato per l’imprenditore e la sua famiglia (oltre che per i lavoratori che vi operano)”. Tutta gente che tira a campare, poco propensa a lasciare spazio ai giovani, a fare nuove assunzioni, con un “management” (l’età media supera abbondantemente i sessant’anni) premiato più per la fedeltà che per il merito. La produttività e la redittività è bassa per un quarto delle imprese.
Questa crisi si ripercuote sulle famiglie italiane, la metà delle quali non arrivano a duemila euro al mese. In sei anni il reddito è sceso del 13 per cento rispetto alla media europea. I mutui sono attualmente uno dei problemi principali, gravano soprattutto sulle coppie giovani. Indirettamente, il rapporto Istat punta il dito sulla pressione fiscale sulle famiglie, ormai insopportabile per tanti nuclei già sottoposti all’aumento dei cereali e dei mutui, e invocano “interventi energici su consumi e investimenti”. Un’indicazione ben precisa per la politica economica del governo, se non vogliamo continuare a restare “la faccia triste dell’Europa”.
Francesco Anfossi