venerdì 29 agosto 2008
NAPOLI AMORE MIO
Renzo Arbore e Napoli, un matrimonio d’amore. Il grande showman è nato a Foggia, e sul palco dei concerti della sua Orchestra italiana si diverte a scherzare sul fatto che i napoletani, quando vedevano passare uno vestito un po’ alla contadina, insomma un "cafone", dicevano: «È arrivato ‘o treno ‘e Foggia». Ci vorrebbe anche fare un film, su Foggia caput mundi, (dal titolo “Foggiattan”, come Manhattan). In realtà tra foggiani e napoletani c’è un rapporto di fratellanza indissolubile, che ha contribuito a fare grande la Sirena partenope, quel genere di rapporto fecondo che da sempre ha legato i suoi “migrantes” a ogni grande civiltà. “Il rapporto tra la Puglia e Napoli è fortissimo. Fin da quando i contadini del Tavoliere e delle altre zone andavano a svernare per mesi sotto il Vesuvio”. Anche il cuore di Arbore è azzurro e batte per Napoli, la “sua” città, la capitale del Mediterraneo di cui è cittadino onorario e di cui fin da ragazzo ha respirato i luoghi, i colori, la musica”.
- Renzo Arbore e Napoli: un binomio indissolubile, a cominciare da “lari e penati”, dalla discendenza. Tua madre è napoletana d’origine.
“E’ vero. Mamma di cognome fa Cafiero, discendente di Carlo Cafiero, celeberrimo personaggio molto singolare, sul quale sono stati scritti dei libri, come quello di Roberto Gervaso. Era un rivoluzionario ex benestante che aveva dato tutto ai poveri. Insomma, potremmo definirlo un eroe singolare della storia patria. Anche papà aveva compiuto gli studi a Napoli, dove si era laureato in medicina. Noi stavamo a Foggia, ma dopo il diploma mi ha fatto studiare a Napoli anziché a Bari”.
- Quindi la scelta di mandarti a Napoli fu una precisa volontà paterna, per mantenere il rapporto con la napoletanità…
“Sì, perché papà in quella città non soltanto si era laureato, ma aveva fatto anche la specializzazione di dentista (tra l’altro mi ricordo che era collega del suocero di Peppino di Capri). Eppoi avevamo tanti amici napoletani. Bisogna capire il contesto storico: erano anni in cui da Foggia si andava nella capitale del Sud anche a svernare, con le nonne e i nonni. A Napoli c’era il teatro, c’era una certa vita, e dopo il raccolto i contadini andavano spesso all’ombra del Vesuvio. Il rapporto tra la Puglia e Napoli è fortissimo. Pensiamo a Domenico Modugno, che ha scritto da pugliese delle bellissime canzoni napoletane, pensiamo al grande compositore Mario Costa, che era di Taranto, autore delle canzoni napoletane insieme con il poeta Salvatore Di Giacomo (da questo connubio nacquero capolavori come Era de maggio, Luna Nova e tante altre perle). Anche nella mia città c’era Evemero Nardella, che ha musicato Chiove (“chi si, tu si a canaria…”, le parole sono di Libero Bovio), un capolavoro della canzone napoletana. C’è sempre stato un rapporto tra la Puglia e Napoli. Tutt’ora vado a cantare canzoni napoletane in Puglia con grande successo. Come del resto in Calabria, dove c’è quella cultura lì, la cultura di Eduardo, la cultura di Totò, la cultura di grandi poeti napoletani”.
- E’ verissimo, io sono di origine calabrese e ho uno zio avvocato che ogni tanto ci salutava e diceva “domani vado a Napoli” con la stessa solennità aristocratica e cosmopolita con cui si sarebbe detto “vado a Parigi” o “vado a Londra...”
“Oggi si direbbe vado a New York, o forse vado a Pechino, a Shangai. Comunque questa concezione di Napoli capitale è sempre arrivata moltissimo nelle province del Regno delle due Sicilie”.
- Tu sei anche “figlio adottivo” di Napoli.
“E’ vero, nel 1990 ho avuto la cittadinanza onoraria. C’è un rapporto straordinario tra me e questa città. Nella mia orchestra ci sono tredici tra cantanti e musicisti napoletani. Tra i miei amici c’è una vera e propria colonia di napoletani, da Luciano De Crescenzo a Maurisa Laurito. Roberto Murolo è stato mio amico fino a alla fine dei suoi giorni. I compagni di università sono ancora quelli con cui ho passato quel periodo bellissimo, un po’ bohemienne, da studente. Poi ci sono gli amici della musica, fin da quando dirigevo il circolo napoletano di jazz. A Napoli coltivavo la canzone napoletana insieme con Roberto Murolo e Sergio Bruni. Con loro facevamo musica nelle case, ci divertivamo a scoprire vecchie canzoni, a cantarle e a farle cantare. Murolo e Bruni avevano due modi diversi di cantare le canzoni napoletane ma entrambi importantissimi. Io avevo anche la passione per il jazz e suonavo per l’esercito americano a Calata San Marco, in questo club di supporto morale alle truppe che si chiamava Uso (United States Organizations), gestito dal Dipartimento di Stato. L’Uso esiste ancora in tutto il mondo laddove ci sono le truppe americane. C’era pure a Napoli, purtroppo distrutto da una bomba”.
- La bomba dell’attentato alla base americana in cui morì uno sciuscià?
“Esattamente. Morì proprio il mio amico sciuscià. Lucidava le scarpe, come i ragazzi del film di De Sica. Stava proprio fuori da questo club sotterraneo, dove io e i miei amici musicisti andavamo a suonare ogni sabato ma anche quando arrivava la flotta. Era un personaggio, un’istituzione. Lì con gli amici quando arrivava la flotta facevamo musica. Era un posto molto singolare l’Uso. C’erano le primissime taxi-girl, che erano signorine che sapevano l’inglese, alle quali era assolutamente vietato portare avanti dei discorsi di altro tipo, ma che invece ballavano e facevano compagnia ai marinai che volevano ballare e intrattenersi in questo locale strano. Oggi sarebbero definite delle hostess. E’ stato il mio primo contatto con gli americani, l’opportunità di fare quel tipo di musica, di essere invitato sulle portaerei, di andare a sentire a Bagnoli i grandi musicisti di jazz che arrivavano sempre per le truppe Nato. Ho sentito Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Dave Brubeck e tutti i grandi musicisti che venivano scritturati dalla Nato di Bagnoli per allietare la permanenza napoletana degli americani”.
- I testimoni e i cronisti dell’epoca dicono che era una Napoli bellissima, di una bellezza stravolgente…
“Era proprio così. Per la verità c’era ancora via Marina, con le sue macerie, che era il segnale e il simbolo della guerra che non era ancora passata. E’ stata ricostruita con molto ritardo (tra l’altro era proprio la via lungo la quale si arrivava a Napoli). Ma il resto della città si ricostruiva, era un cantiere pulsante di vita. Lauro nel bene e nel male aveva edificato Posillipo, con delle palazzine, aveva fatto sorgere la parte panoramica, aveva restaurato con polemiche annesse piazza Municipio, quella del Maschio Angioino. Per la verità era una Napoli affascinante, molto dolce. Quando venne Kennedy nel ’63, vide una città che non solo era bellissima, ma anche generosissima, con lui che rappresentava l’America, con la quale Napoli aveva avuto un lungo e controverso rapporto. In seguito gli americani vennero integrati. Va bene che c’era stata tutta l'epopea così ben descritta da Malaparte nella Pelle, però, insomma, il rapporto con gli americani, con la flotta non era polemico, era di grande amicizia”.
- La napoletanità di Arbore traspare anche dai suoi programmi televisivi...
“L’influenza napoletana è sempre stata fortissima nei miei programmi. Diciamo che da bambino sentivo il jazz perché nella mia città, quando ancora stavo a Foggia, c’erano anche lì gli americani, e quindi attraverso le finestre e i balconi sentivo la musica che arrivava dal circolo Usa che stava proprio di fronte a casa mia. Da qui l’innamoramento per questa musica, il boogie woogie, il jazz , il pop, il rock e tutto il resto. Però, contemporaneamente, mia madre suonava al pianoforte le canzoni napoletane, mia sorella più grande cantava, insomma c’era un rapporto straordinario con le canzoni napoletane. Anche alla radio se ne ascoltava molta in quel periodo durissimo, che era il periodo della ricostruzione. A Foggia i muratori, sulle impalcature, cantavano tutto il repertorio napoletano. Erano anni in cui l’80 per cento delle canzoni che si sentivano alla radio erano napoletane. Erano cantanti popolari, delle vere e proprie stelle nazionali. Poi arrivò Carosone negli anni ’50, Roberto Murolo che faceva un programma meraviglioso di notte, alla radio, su Radio 2 (che allora si chiamava Rete Rossa, l’odierna Radiodue, mentre Radiouno Rete Azzurra) con la chitarra rivoluzionò il modo di cantare napoletano. Mi pare che si chiamasse Una chitarra nella notte o ‘na voce na chitarra. E io sentivo questa voce che cantava le stesse canzoni che sentivamo cantare dalla gente del popolo, però con una voce totalmente rivoluzionaria. E la riflessione che ho fatto dopo anni è che Roberto Murolo ha fatto in Italia la stessa rivoluzione che in Brasile è stata fatta da Joao Gilberto. Prima di Joao Gilberto il Brasile era Brasil, Carmen Miranda, era samba scatenato. Invece arrivò Joao Gilberto con quella maniera sommessa, e tuttò cambio. Lo stesso per Murolo e quella sua specie di “saudade” napoletana, ma anche canzoni umoristiche, era quel modo particolare di porgere la canzone, con la voce bassa, la chitarra. Ma sì, l’ho già detto, un po’ quello che ha fatto Joao Gilberto con la Bossa Nova che poi si è evoluta fino a Caetano Veloso e adesso è diventata un genere. Come è un genere il modo di cantare di Roberto Murolo. Ci sono gli eredi, da Fausto Ciliano a quelli che ancora esistono, comprso Apicella, che cantano con la chitarra in un maniera sommessa, più salottiera. Poi naturalmente sono arrivati mille altri artisti. Carosone è stato fondamentale”.
- Se tu dovessi andare a vivere come un naufrago a Nisida, dovendo portarti una canzone di Murolo e una di Carosone che canzone ti porteresti?
“Mi porto Era de maggio di Murolo. Cantata da lui era proprio una canzone straordinaria, poetica, bellissima, che non invecchierà mai , non stancherà mai. Di Carosone scelgo Maruzzella. Carosone è famoso per Tu vuo fa l’americano, per tante canzone umoristiche, però ha composto una delle più belle canzoni d’amore napoletane di tutti i tempi. La scrisse per la moglie che si chiamava Marita, cui l’ha dedicata. Il testo è stato redatto insieme con un altro personaggio che io ho amato moltissimo, che ho conosciuto quando io sono entrato alla radio, ed era il maestro Enzo Bonagura. Bonagura ha scritto dei capolavori della canzone napoletana e italiana: Scalinatella, Sciummo, una canzone dedicata al fiume stupenda, canzoni antiche come Arance, che era la canzone preferita di Enzo Biagi, che me la cantava sempre: per le bimbe innamorate, arance comprate / hanno il magico sapore di un bacio d’amore. I parolieri sono dimenticati purtroppo, però Carosone, con Bonagura e poi con Nisa (Nicola Salerno) ha scritto canzoni umoristiche meravigliose . La rivoluzione che ha fatto Carosone è stata determinante. Ha mescolato per primo i ritmi esotici con la musica napoletana e poi ha scritto delle meravigliose canzoni”.
- Maruzzella in napoletano vuol dire anche lumachella, già il titolo è una poesia…
“Anche la tessitura dell canzone, con quell’invocazione iniziale che apre (ohe, chi sente, è chi’ mo canta appriesso a me) e l’influenza della musica mediterranea, arabeggiante del Nord Africa, tipica di Carosone (pensiamo a Sarracino, a Caravan petrol. Con la scusa di fare una canzone umoristica lui ha fatto delle opere che conservavano l’eco di culutre e civiltà diverse”.
- Una tradizione che arriva fino ai neomelodici di oggi.
“Più che ai neomelodici arriva alla nuova compagnia di canto popolare, alla Tammurriata nera, a Sergio Bruni e ai suoi epigoni. Tamurriata nera è stata scritta da Nicolardi su musica di E. A. Mario, l’autore della Leggenda del Piave, che ha scritto altre bellissime canzoni per la verità”.
- Parliamo della napoletanità nei tuoi programmi Tv.
“Io ho cominciato con l’Altra domenica. Nell’Altra domenica, che è stato uno dei primi programmi televisivi che ho fatto, c’era Andy Luotto che parlava, suggerito da me, in napoletano (con il suo manicheismo buono, nobbuono), poi ho sdoganato per la prima volta Roberto Murolo che aveva avuto dei problemi poi risolti con la giustizia. Per la prima volta ho fatto vedere Roberto Murolo come lo conoscevo, quello che cantava e faceva cantare nei salotti napoletani della borghesia le sue canzoni. C’era tanto di napoletano, credo anche nel mio modo di parlare. Tanto è vero che sono stato scambiato per molti anni, ancora prima della nscita della mia Orchestra per napoletano, perché mi portavo dietro i proverbi, l’accento e i modi di dire di Napoli. E poi soprattutto un’attenzione molto particolare alla sua cultura: per esempio in quegli anni lì Totò era completamente dimenticato. E io feci per la prima volta vedere il famoso sketch del vagone letto.
- Uno sketch mitico, concentrato in pochi minuti in cui succede la fine del mondo, lo scompiscio per eccellenza. Grazie anche alla bravura della spalla Mario Castellani, nei panni dell’onorevole Trombetta (“chi non conosce quel trombone di suo padre” e “sua sorella trombetta sposata con il signor bocca, del resto la trombetta si suona in bocca”) con memorabili battute: “sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo, ogni limite ha una pazienza, parli come badi, a prescindere...”.
- E infatti ebbe un successo formidabile. Ci si accorse che si rideva di cuore in una maniera straordinaria come non si era mai visto in quegli anni lì. Poi ospitavo anche cantanti napoletani. C’è sempre stata una tendenza, insomma...
- Una tendenza che è continuata in Quelli della notte…
“Lì c’era Maurisa Laurito con la sua napoletanità chiacchierona, vivace, intelligente. Marisa faceva quella che non si tiene un cecio in bocca, come si dice, estroversa, solare. Poi c’erano le canzoni che noi imporvvisavamo. Veniva anche De Crescenzo ogni tanto”.
- Pazzaglia, lo “stimolatore orale”, l’intellettuale organico che citava Cechov, quel de “il livello è basso”, era napoletano?
“E come no? E poi Pazzaglia è diventato popolarissimo in quell’occasione, in quei memorabili salotti intellettuali con “l’ovvio” Catalano, quello che Parigi è sempre Parigi. Ma nella vita aveva fatto molte cose grandissime. Tra cui un programma con me importantissimo che da molti addetti ai lavori e non solo è stato giudicato il più bel programma della storia della Tv. Lo diceva anche Saccà. Si chiamava Cari amici vicini e lontani. Un programma che ho fatto col cuore, dedicato ai sessant’anni della radio., Lo facemmo in quattro puntate, invitando tutti i protagonisti della radio, da Corrado a Walter Chiari, a Monica Vitti, a quelli che facevano Gran Varietà a Silvio Gigli e Nunzio Fiologamo. L’ultima puntata la dedicammo completamente a Napoli. Venne Roberto Murolo che cantò O surdato innamurato, e vennero altri artisti napoletani. Con me, come autore c’era Riccardo Pazzaglia, col quale io ho avuto un ottimo rapporto. Anche Riccardo Pazzaglia è stato fondamentale: ha scritto Lazzarella, Io mammata e tu, sole sole sole, meraviglioso di Modugno e tante altre canzoni fatte apposta per lui.
- E poi è arrivato “Indietro tutta”.
“Anche lì napoletanità a go go. C’era Frassica che è siciliano ma le canzoni che venivano cantate con l’orchestra erano napoletani. C’era Massimo Troisi. Tutti lo ricordano per quello sketch di Rossano Brazzi, però massimo faceva anche una voce fuori campo di uno che guidava un pullmanino di assistente turistico napoletano addetto a portare in giro per il golfo i giapponesi. Era soltanto una voce, ma era memorabile. Poi non dimentichiamo che ho fatto un film su Napoli: FFSS. Cioé che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene? Era un film di riscatto di Napoli, allora si diceva “messaggio”; se si dava una chance, la città, impersonificata da Piera Monterubini, si poteva riscattare. La chance nella parabola era il festival di Sanremo ma nella filosofia del film scritto con de Crescenzo era un augurio a Napoli di trovare una chance vera. Potrà apparire strano, ma la chance per Napoli c’è poi stata veramente...
- E quale?
“E’ stata il G7, nel 1994. Voluto a Napoli da Ciampi, che fu la riscossa di questa città. Napoli, prima del G7, era in una fase molto negativa. Si parlava ridendo di triangolo industriale, Napoli, Avellino, Caserta. Erano tutte zone afflitte dalla disoccupazione. La città era in disordine e il G7 è stata un’occasione per ripulirla, per dare ai napoletani una grandissima chance, che poi si è ripetuta con la vittoria dello scudetto”.
- Scudetto dovuto anche al capolavoro di organizzazione della società, non c’era solo Maradona.
“E’ vero, ma fu anche un capolavoro di organizzazione anche dei miei amici napoletani. Perché era un pubblico civilissimo, gioioso, che dimostrò una maturità e una generosità straordinarie. Mi ricordo che andai a gustarmi la festa dello scudetto nel giorno dell’ultima partita e all’uscita del San paolo i tifosi mi avvicinavano e dicevano: Arbore, ‘u vidite cume simme educati? Lo vedete come siamo educati? Perché avevano scoperto questo loro carattere che poi viene fuori in certe occasioni: quello della solidarietà dell’amicizia, della simpatia, ma anche di quella signorilità che giace in fondo all’animo di ogni napoeltano”.
- Oggi però il barometro butta di nuovo sul malo tempo, anche se pare che l’emergenza rifiuti stia rientrando...
“Napoli è la città dei corsi e ricorsi storici. Una filosofia della storia importantissima, inventata guarda caso da un napoletano che si chiamava Giovan Battista Vico. Corsie e ricorsi che purtroppo portano la città in queste vicissitudini, in momenti no e momenti sì. Si alternano in tutta la sua storia, Napoli ha avuto queste difficoltà terribili.
- Quali pensieri ti suscitavano i cumuli di monnezza ammassati ai margini delle strade che salivano fino al primo piano?
“Il primo pensiero era: come possono i napoletani tollerare tutto questo? Perché non si ribellano? Quando mi chiamava qualcuno e mi diceva: sotto casa mia ci sta la monnezza, io gli rispondevo: perché mi telefoni? Scendi e fai qualcosa, protesta, metti un cartello…questo è il primo impulso che provo, la ribellione dei “napoletani sì”...
- “Napoletani sì”? Che vuol dire?
“Io sono arrivato a questa ahimé amara constatazione: che ci sono i “napoletani sì” e i “napoletani no”. I “napoletani sì” sono la maggioranza. Non è una classifica di ceto, ma va fatta…per esempio i miei tredici musicisti sono tutti “napoletani sì”, sono tutti quelli che scuotono il capo, che ce l’hanno a morte con la camorra, che ce l’hanno avuta fin da subito con la monnezza e sono stati i primi a subire le conseguenze, perché abitano sotto il Vesuvio, proprio nelle zone vicino Secondigliano, nelle zone torbide della città. E siccome noi abbiamo registrato i nostri dischi sempre lì, in un posto che si chiama San Sebastiano al Vesuvio, io vedevo crescere questi vicoli pieni di monnezza e chiedevo agli abitanti: ma come fate a sopportare? E purtroppo non c’era una risposta, c’era un disservizio ormai incancrenito che piano piano ha abituato i napoletani a vedere questa monnezza non raccolta negli angoli delle strade. Poi la cosa è esplosa, con un nocumento per la città ma non solo, per tutto il nostro Paese. Sono stato spesso all’estero, quando poi in Veneto si lamentano che anche a Venezia ci sono delle contrazioni del turismo io le giustifico, malgrado la mia napoletanità, il mio meridionalismo. Quando il turismo nazionale si lamenta e si dubita della mozzarella io capisco perfettamente essendo Napoli una città che spessissimo viene identificata con l’Italia. Ma non c’è solo Napoli, c’è anche Sorrento. Sorrento è la più antica stazione balneare d’Italia, forse del mondo. Io l’ho bazzicata per anni, sembra un po’ defilata, ma a Sorrento c’è il maggior numero di alberghi per il turismo inglese e tedesco…
- Tu sei innamorato di Positano.
“Ebbene sì e sono anche cittadino onorario di Positano. Ma c’è anche Sorrento. Il mio amico del cuore è sorrentino, vive là, e quindi io andavo sempre a Sorrento. Sorrento è un’altra cosa. Napoli, dico io, finisce a Castellammare di Stabia, poi comincia un’altra Napoli “là dove il mare luccica e tira forte il vento” Sorrento, civile, pulita, organizzata, colta, rispettosa, piena di educazione, perché abituata a un tursimo antico. Prima di Venezia Lido la stazione balneare dell’Europa era Sorrento, donde la popolarità della celeberrima canzone”
- Ma come devono fare i napoletani a riscattarsi dai loro mali?
“Innazitutto credo che una certa Napoli si debba ribellare con maggiore forza alla cosa. A Napoli ci sono tante imprese che funzionano. Armiamoci e partiamo, se ne devono occupare anche i napoletani che scuotono la testa e accettano con rassegnazione questa cosa. Ho letto tutto in questi anni da Raffaele La Capria a Erri De Luca, tutto quello che riguarda questo problema. Il riscatto deve partire sempre dal punto e a capo. Ricominciare da tre come Troisi. Bisogna ricominciare da quello che rappresentato Napoli nei territori della cultura, dell’arte, dell’istruzione. Napoli ha prodotto culturalmente una messe straordinaria, da Vincenzo Gemito alla scuola di Capodimonte, dalla scuola di Posillipo alla musica di tutti i tipi, da Salvotor Rosa a Eduardo. Insomma una città così deve ripartire da quello, dalal sua antica munificenza, dobbiano fare una città degna di questo. E nel mio piccolo lo faccio con la mia Orchestra e proietto l’immagine di una Napoli pulita, delle bellezze naturali ma anche dei monumenti. E con le canzoni bellissime che sembrano canzoni del passato ma in realtà sono le canzoni del futuro perché rimarranno nel repertorio del nostro Paese cominciando da O sole mio, la canzone più popolare del mondo, prima ancora Summertime di Gershwin, che è la seconda.
- La critica che ti fanno è che l’immagine di Napoli così come emerge dai tuoi concerti e dai tuoi dischi sia un po’ troppo edulcorata, un po’ troppo “sole, pizza e ammore”…Manca l’altra Napoli, quella della Ortese, di Eduardo, della disperazione dei vichi e degli antri, dei lazzari e degli sciuscià. Una volta ti hanno contrapposto persino a Pino Daniele che invece racconta anche quest’altra Napoli.
“Una contrapposizione stupida, perché io e Pino Daniele siamo amici e ci stimiamo. Pino Daniele è stato l’ultimo grande interprete delle canzoni napoletane moderne. Le canzoni di Pino sono proprio canzoni napoletane. La contrapposizione tra me e Pino è stata una sciocca riflessione che avevano fatto ei colleghi napoletani per giustificare il mio successo commerciale. Era come se a Rio de Janeiro rifiutassero la Ciudad meravigliosa, oppure il samba oppure il Malecon. Io riparto invece dalla bellezza, ma lo dico senza retorica. C’è stata la retorica laurina, che esagerava. Poi c’è stata l’antiretorica, per cui i napoletani hanno scoperto che non bisognava più parlare del sole, della pizza e del mandolino eccetera perché sarebbero scivolati nei luoghi comuni, nella vieta oleografia. Ed è stata un cosa molto ingenua. Era una cosa di moda, molto stupida, perché non puoi buttare il bambino con l’acqua sporca. Se una città è benedetta dal sole perché è esposta a sud e il sole fa tutto il giro da quando sorge a quando tramonta illuminandola, proprio per un fatto fisico, non puoi prescindere da quello. Adesso piano piano mi stanno dando ragione perché stanno sdoganando la Napoli bella. Hanno cominciato con O sole mio, che era diventata la canzone più invisa ai musicisti napoletani. Io chiesi proprio a Pino Daniele di venire a cantare Regginella e O sole mio. Adesso le stanno riscoprendo tutti. Io mi sento orgogliosamente un antesignano di questo. Recuperando i mandolini che non avevano più neanche la cattedra nel conservatorio di San Pietro A Maiella e adesso l’hanno riavuta, pochi anni fa, perché venivano visti, addirittura criminalizzati come struimento deteriore, perché certamente si era esagerato con la retorica anni prima”.
- C’è quella bella canzone, Mandolinata e napule..
“Una delle più belle canzoni dal punto di vista classico di Ernesto Murolo il padre di Roberto. Un brano di musica classica degna di Bach come melodia. Non bisogna avere paura del sole e della pizza che Napoli ha diffuso in tutto il mondo per aver paura della retorica. Anche a Sidney si parla di pizza. Ma ce n’è voluto per imporla. A proposito di cucina napoletana, io sono molto goloso di porcherie tipo la carne cotta. Vado in un locale, in piazza San Nazaro che vende la zuppa di soffritto”.
- Qual è il tuo rapporto con la Chiesa di Napoli?
“Beh, una volta si diceva meno male che c’è la magistratura. Ora si dice meno male che c’è la Chiesa. Credo che la Chiesa napoletana stia colmando quel vuoto istituzionale che spesso si nota in questa città. Per quanto riguarda il mio sentire religioso, io sono legato moltissimo anche alle chiese di Napoli, in particolare a quella di Santa Chiara, dove il mio animo si rivolgeva, da giovane, alla vigioia degli esami”.
- Il libro più bello su Napoli?
“Ferito a morte di Raffaele La Capria, certamente. Ma ce ne sono tanti altri, come Storia del Regno di Napoli di Antonio Ghirelli. Io, poi, devo dire la verità, sarei anche per la riscoperta di Marotta e del suo Oro di Napoli. Certamente Marotta era un bozzettista come dicevano alcuni però andrebbe rivalutato. Quando ho fatto il mio concerto a Milano l’ho chiamato con un titolo di un libro di Marotta, che si chiamava A Milano non fa freddo ed era un titolo di un libro in cui il napoletano Marotta trapiantato a Milano scopriva che il calore di Milano, il cuore dei milanesi potevano benissimo conciliarsi con quello dei napoletani. Tanto è vero che i napoletani che vengono a Milano hanno successo.
- C’è anche la canzone milanese per eccellenza “O Mia bela madunina” piuttosto sarcastica nei confronti dei napoletani: “Canten tucc "lontan de Napoli se moeur", ma po' i vegnen chi a Milan”. Cantano tutti che lontano da Napoli si muore ma poi vengono tutti qui a Milano...
”O mia bela Madunina l’ho fatta cantare da Jannacci con i mandolini e al mio amico Enzo gli è venuto il magone perché diventa una melodia meravigliosa. Te l’ho detto, il mandolino ha un suono…magico. Per la melodia è proprio uno strumento particolarissimo, misterioso, non si sa perché ma è così. Più del violino. E infatti il mandolino sta tornando. Napoli è così, ha questi corsi e ricorsi, cade e si rialza, è soggetta a delle mode. La conclusione è che Vico aveva ragione. Per me che ci hò settantant’anni è da sempre che mi dico che ci sono i flussi e riflussi…i corsi e i ricorsi di Vico, un filosofo napoletano che c’aveva azzeccato. Più di certi filosofi tedeschi che avevano cercato di cambiare il mondo come Hegel, heidegger o Marx Macché, ve lo dico io, cari filosofi. Vico è meglio ‘e Marx. Don Benedetto Croce, da lassù, mi approva”.