martedì 21 ottobre 2008

IL RAGAZZO CHE HA RACCONTATO GOMORRA


Per aiutare a capire chi è Roberto Saviano e cosa rappresenta il suo libro Gomorra, ripropongo il ritratto che ne ho fatto in "Dio non volta le spalle a Napoli". Auguri Roberto, aspettiamo il tuo nuovo libro


«Era un nostro amico, poco più di un ragazzo. No, non poteva essere lui. Invece era proprio lui. Quando siamo arrivati avevano portato via il corpo, ma il suo sangue era ancora sull’asfalto. C’era il parroco in preghiera di fronte a quella macchia rosso scura. È sangue giovane, ci diceva balbettando, è ancora pulsante, fresco di vita, bisogna inginocchiarsi di fronte a questo sangue giovane. Noi stavamo per inginocchiarci, ma in quel momento arrivò un’auto e parcheggiò proprio sopra quel lago di sangue e segatura».
Sangue e segatura. Quanto sangue e segatura avrà visto Napoli negli ultimi vent’anni? Quante auto ci sono andate sopra, come fossero macchie d’olio, incuranti di quel sangue scolato dall’anima? Roberto Saviano se lo chiedeva ad alta voce mentre parlavamo camminando in una vociante via Toledo, rasentando i Quartieri spagnoli, una delle tante zone franche del sistema. Il sistema è come chiamano la camorra i suoi affiliati, una rete di clan in perenne lotta che si spartiscono traffici e potere dopo la fine della grande guerra tra la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la nuova famiglia.
Saviano è stato il protagonista del caso editoriale del 2007. Il suo Gomorra è letteralmente esploso in mano ai curatori della Mondadori: all’inizio si stimava qualche migliaio di copie, poi ha cominciato a venderne diecimila, settantamila, poi ancora centomila, cinquecentomila, un milione, un milione e duecentomila. È stato tradotto in 42 lingue, compreso il cinese mandarino. Questo romanzo-inchiesta nei gironi danteschi di Napoli, tagliente come una lama, lucido, tragico e dolente, è diventato un classico capace di coinvolgere il mondo intero con le sue denunce e il suo sdegno, con nomi, personaggi ed episodi che spiegano più di mille saggi sull’argomento.
Lo avevo incontrato insieme con lo scrittore Maurizio Braucci e il collega Nino Nicois una mattina di settembre del 2006, quando il libro non era ancora diventato un best seller: nelle redazioni, a parte qualche eccezione, era passato abbastanza inosservato, fu il passaparola a diffonderlo e a lanciarlo, a scavare la crosta dell’indifferenza che di solito circonda i libri-inchiesta di attualità, specie se non sono legati a grandi firme dell’Empireo giornalistico.
Al giornale fu il mio direttore Antonio Sciortino a scoprirlo per primo: lo aveva letto l’estate e ne era rimasto molto colpito. «C’è questo romanzo che è di una crudezza sconvolgente, ma molto efficace, vibrante», mi disse. Poi mi descrisse a spanne la prima scena: un container del porto che si apre svelando il suo macabro carico, cadaveri di immigrati cinesi rispediti nella loro madrepatria per dargli sepoltura nella terra di origine. Una scena forte, immaginaria, che calamitava il lettore all’interno del romanzo e del tema iniziale legato all’egemonia commerciale che i cinesi avevano ormai raggiunto a Napoli e in tutta la Campania, divenuta l’enclave italiana dell’Estremo Oriente.
Non fu difficile procurarsi una copia, giaceva dentro una pila di libri intonsi, novità editoriali che si erano accumulate in uno scaffale del mio angolo di redazione: me l’ero fatto passare davanti dando un’occhiata distratta alla copertina, pensando che fosse l’ennesimo libro-inchiesta-denuncia sul sistema, fatto di ordinanze e requisitorie di pubblici ministeri tradotte in giornalese. Mi sbagliavo. Sarebbe stato sufficiente leggere l’incipit per capire che non era quello il caso.

C’eravamo dati appuntamento dalle parti della stazione. C’era qualcosa che non andava perché al momento di salire in auto ci chiese di stare dietro, dove era possibile dare meno nell’occhio. Era piuttosto nervoso e turbato, aveva un umore nero che faceva a pugni con quella giornata di sole scintillante. Il cielo sembrava di vetro. Il mare del porto, dove aveva ambientato uno dei suoi più bei capitoli, e dove raccontava di aver lavorato come facchino per mesi, era una tavola di smalto. Non era difficile immaginare che il brutto tempo incombeva nella sua testa, che era finito nel mirino della camorra. Aveva ricevuto prima telefonate strane, poi minacce vere e proprie. Qualche settimana dopo lessi sul giornale che gli avevano dato la scorta per i rischi che correva. Fino a quel momento il suo giubbotto antiproiettile, mi spiegò, era stata la sua faccia sul retro della copertina del libro. Una faccia molto scavata, triste, dolente, offesa, come la sua terra. La sua visibilità era un modo per non rimanere soli, isolati. Condizione che, come è noto, ti indebolisce, ti mette in pericolo e ti porta nel centro del mirino della mafia, della camorra e di qualsiasi altra malavita del mondo.
Gomorra è un mix di fantasia e realtà, di sogni e incubi, di esperienze di vita vissuta in prima persona, come quella di scaricatore al porto di Napoli, dove ormai arrivano container quasi esclusivamente dalla Cina e dove si contrabbanda tutta la merce del mondo. Quel porto dove attraccano le grandi navi da crociera e le immense navi cargo, simbolo della globalizzazione che entra nei mercati e nella carne degli uomini creando ricchezza, squilibri, povertà, violenze.
Ero stato molto colpito dalla storia del suo amico Pasquale, il sarto di Arzano, il paese vesuviano delle mille tessiture abusive nascoste nei sottoscala, l’uomo che alla televisione riconosce un suo vestito addosso ad Angelina Jolie che sfila nella notte degli Oscar. Pasquale non può fare altro che soffocare nella rabbia il suo legittimo orgoglio di maestro dell’ago da cucire. Perché Napoli è una pagina del libro dell’eccellenza italiana che non può essere scritta. E allora Pasquale, annientato dalla frustrazione, cambia mestiere e decide di bruciare le sue mani sapienti di sarto consumandole sul volante di un camion.
Ma sono rimasto impressionato, come milioni di lettori, anche dalla visita alla villa di un camorrista arredata in tutto e per tutto come quella hollywoodiana del boss cubano Tony Manero, interpretato da Al Pacino nel film Scarface.
Commentavamo insieme questi episodi narrati nel libro mentre in auto tagliavamo in due la città. Saviano è un ricercatore, fa parte dell’Osservatorio della camorra e dell’illegalità. Sa interpretare le carte dei magistrati, ma ha la testa di uno scrittore penetrante e visionario, a caccia di paradossi esistenziali. Inserisce nomi e cifre in una struttura narrativa. In quelle pagine ci senti il Malaparte di La pelle e la Serao di Il ventre di Napoli.
Il New York Times, che ha inserito Gomorra nei cento libri del 2007 e ha paragonato la sua vicenda a quella di Salman Rushdie, ha scritto in un’entusiastica recensione che ha la stessa attrazione dei dirty details di Truman Capote, (gli sporchi dettagli di A sangue freddo, presumo). Ma Saviano ci tiene a dirmi che si è ispirato anche a Primo Levi, a Dispacci di Michael Herr (il corrispondente della guerra del Vietnam sulle cui cronache si basa Apocalypse now), al Pasolini di Petrolio e a William Langewiesche, il grande giornalista autore di American Ground, un imponente reportage sull’11 settembre.
Difficile immaginare un luogo più lontano da Napoli di Ground Zero. Ma a leggere le pagine dei reportage di Langewiesche è possibile ritrovare nella tecnica narrativa le suggestioni nascoste di quell’ispirazione, le tracce del pathos freddo e analitico che caratterizza quella scrittura realistica e onirica allo stesso tempo: «Chiunque sia arrivato sul posto nei primi giorni ha avuto la stessa impressione: era come uscire dalla città ed entrare in un sogno. Ma dopo aver constatato l’entità della distruzione, molti pensavano di essere capitati in una zona di guerra. Sembra di stare in un film, si sentiva ripetere. Forse, ma almeno nel mio caso la reazione è stata un’altra. Dopo anni di viaggi negli angoli più sperduti del pianeta, ho provato un’imprevista sensazione di familiarità piuttosto che di straniamento. Mentre arrancavo tra i detriti sparsi per strada, o mi aggiravo in quel paesaggio sconvolto, respirando fumo e polvere, sentivo di avere davanti a me qualcosa di simile alla distruzione che in genere si autoinfliggono le società degradate. Questa volta, però, era toccato a noi, e il messaggio sembrava essere: “Ecco un saggio del nostro modo di intendere la politica”. E la precisione con cui era rimasto impresso sul terreno lasciava sgomenti».
«Ho scoperto che nelle scuole lo leggono soprattutto i ciucci, gli ultimi della classe: si appartano e di nascosto se lo leggono», mi raccontò Saviano mentre camminavamo in via Toledo. In realtà, come si è visto, non lo leggevano solo gli ultimi della classe. Difficile spiegarne un successo così planetario: molto probabilmente il fatto che la lettura di Gomorra sia una vera e propria «seduta di emozioni», come ha scritto un suo ammiratore in un blog, è una delle ragioni non secondarie.
Questo giovane scrittore ha consegnato alla letteratura personaggi e avvenimenti che sembravano esclusiva prerogativa della mafia siciliana, dai tempi del padrino di Mario Puzo. Ma l’ha riempita di uno sdegno morale, di un contenuto etico, di denuncia, che si affianca alla poesia di certe pagine. Che di poesia si trattasse l’ho capito per caso una sera, ascoltando in televisione la lettura che ne faceva Toni Servillo, futuro interprete del film omonimo diretto da Matteo Garrone.
La sua scrittura ha la profondità quanto meno di un quarantenne e invece ti vedi arrivare un ragazzo di ventotto anni, vestito in maniera semplice, minimale direi, un maglioncino e un paio di jeans, magrissimo, tutto nervi e ossa, due occhi grandi acquosi e scuri, scavati e dolenti, come se fosse stato chiamato a reggere tutto il dolore di Napoli.
Il successo gli ha procurato anche qualche critica e una lunga sequela di dibattiti sul rapporto tra verità e finzione, tra scrittura e verità, tra cronaca e verifica delle fonti. Ho letto divertito che qualche giornalista lo ha persino accusato di aver attinto, nella descrizione di alcuni episodi, anche dai giornali locali, come se fosse un crimine, come se ci fosse qualcosa di male. Come se Leonardo Sciascia non avesse fatto altrettanto nello scrivere L’affaire Moro. Tanto è vero che lo scrittore siciliano raccontava che durante la stesura del pamphlet sul rapimento dello statista assassinato dalle BR il suo tavolo di lavoro era completamente allagato da ritagli di quotidiani, su cui dominava, al centro, un dizionario di italiano «come una specie di frangiflutti».
La verità, spesso, deve fare un largo giro per arrivare all’evidenza dei fatti. Attraversa descrizioni di luoghi e ritratti di persone, analizza numeri, percorre mode, tendenze, perfino sogni. E la verità dice che la camorra è stata per troppo tempo sottovalutata dagli italiani, attratti, quasi affascinati, da personaggi, riti e simboli della Cosa Nostra siciliana e dalla sua struttura di potere piramidale, dalle cupole, dalle riunioni dei vari boss che finivano con qualche componente strozzato e sciolto nell’acido, dai vari padrini che popolavano Palermo, le masserie siciliane, fino a Brookling e Long Island, che finivano per ispirare saghe cinematografiche da Oscar. Ignorando che l’organizzazione anarchica e orizzontale del sistema ha fatto 3600 morti dal ’79: più della mafia siciliana, della ’ndrangheta, della mafia russa, delle famiglie albanesi, delle vittime dell’Ira, dell’Eta, delle Brigate rosse e di tutte le stragi nere avvenute in Italia. Un cancro che non ha eguali in Europa, un sistema affaristico di portata mondiale, una multinazionale che controlla buona parte degli esercizi di Napoli, lo smaltimento illegale dei rifiuti, l’edilizia, il mercato delle armi, il commercio di eroina e cocaina, i traffici leciti e illeciti della Campania, del Paese, dell’Europa intera con diramazioni in America e in Cina.
A pensarci bene, 3600 morti sono quante le vittime dell’11 settembre. Il Ground Zero italiano.

Percorremmo la statale 167 diretti a Scampia, la città-quartiere simbolo del degrado della metropoli partenopea. Ci fermammo davanti alle Vele, uno dei tanti fallimenti dell’urbanistica napoletana, palazzoni che paiono immensi transatlantici, immensi Titanic di periferia attraccati ai porti franchi della camorra; attraversammo il quartiere Monterosa e i murales sbiaditi di Felice Pignataro, che dipingeva sui muri i suoi sogni esotici e visionari di giustizia sociale sognando di cambiare il volto della città (e con esso anche la sua anima). Passammo dalla fermata del metrò che la domenica porta i ragazzi di Scampia tra i palazzi residenziali e le vetrine scintillanti del Vomero.
«Almeno qui c’è spazio e luce», commentava Saviano, «a differenza dell’ombra e del buio di Forcella e dei Quartieri spagnoli».
Più in là, ai bordi delle strade o nel canalone che costeggia il parco, ragazzi e ragazze vagavano tremanti come sonnambuli. Dove le avevo viste scene infernali come questa? Dove avevo assistito a questo palcoscenico dell’orrore? Ecco dove, nel cuore della civile Svizzera. Mi venne in mente il Platspitz di Zurigo che avevo visto, il parco dove venivano ammassati come in un ghetto tutti i tossici del cantone. Liberi di farsi di eroina, di bucarsi dove volevano devastandosi il corpo, il cervello e l’anima, in preda ai tremori e agli spasmi. Purché non deturpassero le vetrine dello shopping della Bahnhof Strasse.
Qui a Scampia li chiamano visitors, eroinomani consumati da anni di buchi che si fanno alla luce del sole e che la camorra spesso adopera come cavie regalandogli dosi di cocaina che loro si iniettano nelle vene. Gli spacciatori verificano sui visitors se la coca è tagliata nel modo giusto. Se gli eroinomani e i cocainomani non rimangono fulminati come cani vuol dire che va bene, si può vendere.
Scampia, teatro della faida tra i Di Lauro e gli Scissionisti, è la più grande piazza di spaccio d’Europa, vengono qui a rifornirsi e a farsi tutti i tossici della Campania.
Eravamo alla vigilia della mattanza che la sta insanguinando, ai «giorni peggiori della città», come ha detto il capo dello Stato, al dramma che vede il sangue chiamare altro sangue nella faida senza fine che si consuma tra i clan per il predominio della droga e degli altri traffici. Saviano mi disse di aver scritto quel libro principalmente «per rabbia» e mi pare un buon punto di partenza per la stragrande maggioranza dei napoletani che soffrono sulla pelle e nell’anima la putrefazione di una società, il sangue e lo scempio civile di questi giorni. I militari, i piemontesi inviati nel vecchio regno borbonico per rendere visibile la presenza dello Stato servono a poco, meglio qualche decina in più di investigatori di razza, come dice il capo del pool anticamorra in un’intervista. Meglio la consapevolezza che quella di Napoli è un’emergenza non solo criminale, ma soprattutto ambientale, culturale e sociale che coinvolge tutti i napoletani e non solo. Anche se con diverse responsabilità, si capisce.
«Ho scritto», aggiunse, «in memoria di don Diana e dei parroci che ogni giorno rischiano la vita per opporsi alla logica del sistema». Don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe, venne ammazzato dalla camorra nei corridoi della sacrestia, il 19 marzo 1994. «Il lavoro di don Diana prosegue nell’opera di tanti parroci di altri quartieri o di altri Comuni dominati dalla camorra, come il sacerdote inginocchiatosi davanti a quella chiazza di sangue», mi dice Saviano. «Preti che lavorano senza clamori, nel silenzio, e che non posso nemmeno citare, Uno di questi ha spento una faida con il dialogo e con il Vangelo. Ha evitato decine di potenziali vittime».
Come è noto, il successo planetario di Gomorra gli ha cambiato la vita. «Tante volte ho pensato che se avessi immaginato le conseguenze del successo del mio romanzo mai lo avrei scritto». La scorta lo protegge da ritorsioni dei clan, che sono tarditielli ma non scordatielli, non dimenticano l’affronto. È costretto a vivere una «quotidianità negata», l’impossibilità di considerare i giorni, le ore «uguali a prima».
«Il pericolo non nasce da chi pesca e trova una nuova notizia, il pericolo nasce da chi la riesce a far passare, da chi rompe la crosta degli addetti ai lavori, da chi in qualche modo riesce a far veicolare dei messaggi, dei racconti», ha spiegato in un’intervista a Enzo Biagi. E in un’altra occasione aggiunse: «Il rischio, per gli scrittori, non è mai di aver svelato un segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene».
Al tramonto ritornammo verso il cuore della città, diretti esattamente là dove avevamo iniziato la giornata. Lasciammo la macchina per fare due passi a piedi, percorremmo i viali animati dello shopping serale, fino alla stazione, dove lo attendeva una ragazza visibilmente preoccupata, non so se fosse un’amica o la sua fidanzata. Tornando verso l’albergo mi sembrava che su tutta Napoli si fosse diffusa una tenue luce azzurra. A Napoli tutto è azzurro: anche la malinconia, ha scritto Libero Bovio.