Lampedusa è l’isola più a Sud dell’Italia, prossima più alla Libia che al nostro Paese, la porta della Penisola sul Mediterraneo e sull’Africa. Quel Sud del mondo che preme sotto la spinta dei flussi della globalizzazione, delle condizioni di povertà insopportabili, delle guerre, delle carestie. Difficile chiudere quella porta. Il Governo ne vorrebbe fare una specie di Ellis Island, l’isolotto newyorchese dove venivano censiti gli immigrati che sbarcavano in America, l’opposizione sostiene che è sempre più simile a un campo di concentramento, il sindaco di Lampedusa Bernardino De Rubeis che vorrebbe mantenerla come un paradiso di turisti, dice che sta diventando una nuova Asinara, una sorta di colonia penale, con la popolazione, cinquemila abitanti circa, ostaggio dei detenuti. I clandestini sbarcano sul molo addossato al porticciolo turistico, di fronte alla Madonna di Portosalvo, assistiti dai medici senza frontiere e dai volontari della Confraternita della Misericordia di Palermo. I turisti e gli isolani assistono da pochi metri all’approdo di quei disperati. Arrivano anche a centinaia: ghanesi, bengalesi, magrebini, tunisini, etiopi, sudanesi, eritrei. Molti scappano da un servizio militare che dura anche quindici anni. La maggior parte da una vita di stenti. Un viaggio, anzi un naufragio, costa dai 1.500 ai 3.000 euro. Solo chi non conosce Lampedusa può stupirsi della fuga di massa surreale dal centro di accoglienza degli immigrati, che si sono uniti al corteo di protesta antigovernativo dei lampedusani al grido di “libertà”. Ce ne sono attualmente 1.300, per una struttura pensata per ottocento immigrati al massimo.
I lampedusani hanno perso la pazienza da tempo, anche se hanno sempre assistito i migranti sbarcati sulle coste. Le condizioni dei clandestini sono spaventose, anche se si tratta di gente che ha attraversato il deserto e che è già scampata alla selezione naturale del viaggio che spesso comincia dai villaggi dell’Africa subequatoriale. Ore e ore di marcia forzata, di stenti, di soprusi delle bande dei predoni disseminati lungo le rotte. La permanenza clandestina nei grandi palazzoni semidiroccati di Tripoli o di Tunisi, le cosiddette “house of africans”, gestite dai mercanti di schiavi. L’imbarco su carrette del mare. Il naufragio sicuro (non c’è mai una destinazione, la barca va alla deriva e si spera che venga ripescata o finisca per incagliarsi contro le coste). La segnalazione degli elicotteri e il ripescaggio della nave militare Minerva, delle motovedette della Guardia Costiera o della Finanza. Oppure la morte in quel cimitero a cielo aperto che è il Canale di Sicilia. Quando si arriva su qest’isola in quelle condizioni, stremati, disidratati, annientati da tragedie senza fine, si è pronti a tutto.
L’unica, vera soluzione, per Lampedusa, è fermare le carrette del mare prima che partano, per impedire sbarchi, sovraffollamenti, naufragi e soprattutto tragedie senza fine. E l’unico modo per fermarle è mettere in atto il Trattato di amicizia con la Libia siglato dal Governo, che prevede pattugliamenti lungo la “Quarta sponda” e la persecuzione dei “mercanti di schiavi”. Una volta ratificato dal parlamento e messo in pratica il pattugliamento congiunto, una volta cessati i viaggi della vergogna, sarà possibile passare alla seconda fase, quella dell’organizzazione sulla sponda africana del Mediterraneo di centri che diffondano informazioni sul nostro mercato del lavoro, in modo da controllare i flussi. Oggi sembra un’utopia, ma il progetto è quello di fornire corsi di formazione professionale nei Paesi di provenienza in collaborazione con le organizzazioni non governative. Fino ad allora Lampedusa continuerà a essere la porta sfondata dell’Italia nel Mediterraneo.