sabato 31 gennaio 2009

L'ITALIA E LA CRISI ECONOMICA


Nessuno è in grado di effettuare una prognosi esatta di questa crisi mondiale: né a Davos né in qualunque altro posto del mondo. Nel frattempo tutti i Paesi industrializzati hanno sviluppato politiche protezionistiche, dagli Usa alla Cina. In Europa, Germania, Francia e Spagna sostengono l’economia con giganteschi piani di finanziamento alle banche e soprattutto alle imprese, prima di tutte quella dell’auto (ma anche acciaio ed editoria), invitano a comperare prodotti del proprio Paese, oppongono politiche protezioniste nei confronti dell’import. Negli Stati Uniti, colpiti nel 2008 da due milioni e seicentomila disoccupati e dove “molte famiglie stanno sperimentando il sogno americano al contrario”, Barack Obama ha ottenuto dalla Camera l’approvazione di un pacchetto di 819 miliardi di dollari in favore dell’economia, mentre il neosegretario del Tesoro Timothy Geitner ne sta preparando uno da duemila miliardi di dollari per il salvbataggio delle banche e della finanziar.
E in Italia? Il ministro dell’Economia Tremonti sostiene che prima dei capitali il mondo della finanza ha bisogno di regole. D’accordo. Ma com’è tutti gli altri (Giappone, Inghilterra, Cina, Stati Uniti, Francia) sono già passati ai capitali? Eppure anche l’Italia ha un deficit di crescita, anche se sappiamo che la situazione è diversa rispetto al resto d’Europa per una serie di anomalie che proviamo grosso modo a riassumere: un sistema bancario meno internazionale e quindi più sicuro, un’industria fatta soprattutto di un reticolato di piccole e medie imprese, un debito pubblico ipertrofico, un Paese “bloccato”, bisognoso di riforme. L’Unione europea sollecita stimoli fiscali ma finora si è visto poco, forse perché non possiamo permetterci di allargare il deficit per via dello stock ipertrofico del debito pubblico. Quanto alle misure di sostegno all’industria automobilistica, per settimane i ministri hanno detto che era meglio aspettare il coordinamento europeo (quello sì), mentre Sarkozy e la Merkel passavano all’azione con imponenti piani di finanziamento dell’industria nazionale.

Confindustria ha lanciato un allarme rosso sul fronte dell’occupazione, soprattutto per quanto riguarda l’industria dell’auto. Si parla di ecofinanziamenti, bonus rottamazione da 1500 euro ma ancora non è chiaro quando e in che forma. Il Governo italiano sembra privilegiare la tattica del “wait and see”, attendere gli eventi per poi passare all’azione. E’ giusta questa tattica? Forse potrebbe esserlo se in Italia le parti in gioco si muovessero come un sol uomo. Ma non è così. La Fiat ha già avviato una collaborazione con il gigante dell’auto malato Chrysler. Confindustria, Cisl e Uil hanno firmato la riforma dei contratti senza il principale sindacato (almeno come numero di iscritti), la Cgil, che a sua volta promette piattaforme autonome. Chissà se il sindacato capirà che tra qualche mese il problema non sarà più come ottenere maggiori incentivi salariali ma semmai come mantenere il posto di lavoro. Nel momento in cui dovremmo fronteggiare la crisi con una strategia di unità nazionale se ne vanno tutti in ordine sparso, come se la situazione fosse rosea. Ogni crisi è l’occasione per rinnovare un Paese, come sta facendo Obama riconvertendo l’industria dell’auto e gettando le basi della “green economy”. Nella consapevolezza che i suoi piani hanno bisogno del sindacato, poiché “non si può avere una forte classe media senza avere un forte rapporto coi sindacati”. Da noi assistiamo a dichiarazioni del Governo e della Cgil in cui si afferma che ciascuno può fare a meno dell’altro. Come è possibile mettere in cantiere un programma di stimolto fiscale in direzione dell’innovazione tecnologica (in particolare nel settore ambientale) senza la collaborazione di tutte le parti sociali in campo? Ma forse qualcuno pensa che l’Italia può divenire il principale esportatore mondiale di polveri sottili.