«Se trovo chi va in giro a fare nove serie sulla Piovra e a scrivere libri sulla mafia, che hanno dato al mondo questa immagine dell'Italia, lo strozzo». Come sempre Silvio Berlusconi ha trovato un modo per abbagliare la scena mediatica. Il Cavaliere è un genio del marketing politico, sa che siamo nella civiltà dell'immagine, avendo in buona parte contribuito a costruirla. Elencare le leggi prodotte dai suoi governi contro la mafia non avrebbe ottenuto l'effetto raggiunto dal suo giudizio tranchant sul danno di immagine prodotto dalla mafia in Italia e all'estero, opinione peraltro molto condivisa in particolare tra i siciliani, stufi di vedersi rappresentare dal «Padrino» parte prima, seconda e terza in tutto il mondo.
Non importa se molte fiction sono prodotte da Mediaset e diffuse dalle sue reti, come «Il capo dei capi» sul boss Totò Riina. Quello che contava era bucare la scena, era la rappresentazione mediatica della suo giudizio contro la mafia. Per il resto Berlusconi sa bene che il rapporto tra arte e realtà è assolutamente libero e va lasciato alla responsabilità dei registi, degli scrittori, degli sceneggiatori. La libertà di espressione nell'arte è l'anima del pensiero liberale di cui Berlusconi si fa alfiere. Forse che le decine e decine di film con Edward G. Robinson sui gangster di Chicago prodotti a iosa da Hollywood hanno creato danni di immagine agli Stati Uniti?
La mafia del resto produce un'attrattiva irresistibile per i registi e gli scrittori: è un consorzio di uomini che sprofondano nelle pieghe del male. Molti individuano la causa di tutto nel «Padrino» il best-seller di Mario Puzo tradotto in film da Francis Ford Coppola, che ha mitizzato le figure di una cosca di New York. Questo non significa che lo spettatore si lasci affascinare da quel consorzio del male che imprigiona la Sicilia e l'Italia dall'epoca dei Beati Paoli.
Anche perché sa bene che nella realtà si tratta, almeno per quel che riguarda il braccio militare, come ebbe a dire un magistrato, di «ometti» destinati in gran parte a finire in galera o dentro un pilastro, dediti a coltivare gli istinti più primordiali: l'avidità, la violenza, la legge del branco. La loro «banalità del male» è stata ben rappresentata in «Good Fellas» di Martin Scorsese.
Anche nella «Piovra» la fiction Tv che ha avuto 14 milioni di media di spettatori, con punte di venti milioni, quello che emerge in fondo è una spirale di morte e di soprusi insopportabili. Ed è giusto che gli italiani la conoscano a fondo. Non c'è dubbio che «la Piovra» abbia tenuto desta la coscienza degli italiani sull'attività di tanti investigatori, magistrati e cittadini negli ultimi vent'anni. Vi sono poi autentici capolavori che dovrebbero essere visti nelle scuole, come «I cento passi» di Marco Tullio Giordana e «Alla luce del sole», il film di Roberto Faenza sull'omicidio di padre Puglisi, che tra l'altro rende un'immagine molto realistica della cosca di Brancaccio, di cui tanto si parla in questi giorni.
La filmografia sull'«onorata società» è sterminata. Per elencarla non basterebbe questo giornale; da «In nome della legge» di Pietro Germi, uscito nel 1949, al «caso Pisciotta» di Visconti del 1961 a «Il giorno della civetta» di Damiano Damiani (il primo regista de «La Piovra») sulla mafia latifondiaria che diventava mafia degli immobili.
E poi, ancora, salendo nel tempo, «Cento giorni a Palermo» di Giuseppe Ferrara e Giuseppe Tornatore, dedicato all'attentato al generale Dalla Chiesa, fino ai film su Falcone e Borsellino e sul capitano Ultimo. Ne abbiamo tralasciati tantissimi. Ma ci piace ricordare il bellissimo «Le conseguenze dell'amore» di Paolo Sorrentino, sul travaglio interiore di un «colletto bianco» di Cosa Nostra interpretato da Tony Servillo.
L'alternativa a questa libertà di espressione sulla mafia è quello dei film agiografici o propagandistici, alla Eisenstein, o la semplice ignoranza del fenomeno. Possiamo sempre far finta che la mafia non esista. E girare documentari sulla «prima disgrazia di Palermo, che è la vergogna d'Italia, e lei mi ha già capito di cosa parlo: il traffico», secondo la celeberrima battuta di un altro bel film sulla mafia di Roberto Benigni: Johnny Stecchino.